AD10S, Diez

Non so se Maradona sia il più grande calciatore di tutti i tempi. Non credo sia nemmeno possibile stabilire, con rigore scientifico, un simile primato. Ed è, questa, una conclusione alla quale sono arrivato con la lente degli anni. Ogni calciatore è infatti figlio del suo tempo. E del suo calcio.

Di certo, però, so che Maradona è stato unico. Ma qui non c’entra il matrimonio tra genio e sregolatezza, esaltato con fare un po’ retorico dal solito esercito di penne d’oca: si tratta, infatti, di un vizio comune a tanti altri talenti purissimi. Il punto è un altro: Maradona resta un esemplare unico e irripetibile perché giocava non a calcio, ma con il calcio, metafora della sua stessa esistenza, che rotolava dove lui voleva ondeggiando tra autolesionismo e celebrazione. Se è vero, come sosteneva Pasolini, che il gol, assieme al dribbling, è un «momento poetico» del calcio perché è «ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità», allora Maradona è certamente un poeta. Probabilmente il poeta. Forse perché, come scrive Marco Ciriello nel suo omaggio tenerissimo a Diego (Maradona è amico mio, 66THA2ND), i gol di Maradona sono «rivendicazioni di bellezza che interrompono gli studi tattici». Insomma, per dirla ancora pasolinianamente: pura negazione della sintassi. E Diego è colui che più di ogni altro l’ha detestata.

Truffa e maestria. E pensi subito ad Argentina-Inghilterra. Eppure, a parere di chi scrive, il suo gol più bello è quello, impossibile, segnato alla Juventus, su punizione, nell’85. Rivedo Tacconi che innalza la barricata e Maradona che la aggira ancor prima di tirare in porta: «Tanto gli faccio gol lo stesso». Ma quella traiettoria, truffaldina nei confronti delle leggi della fisica, si fa beffe anche dei cori, vergognosi, che dipingono Napoli come terra dell’eterno abisso. Oggi come allora. Il pallone che trapassa la sicumera di Tacconi è, per recente ammissione della sua stessa vittima, un’opera d’arte di cui è un privilegio far parte. Ed è un cazzotto politico. Un altro, dopo quelli rifilati agli inglesi nell’86 in Messico allo zenit del mito.

Fenomeno sociale e mediatico, Maradona è stato commercializzato, dipinto, fabbricato, crocifisso, perdonato. In tanti hanno provato a manovrarlo (i militari in patria, la FIFA, la camorra, la droga, perfino gli amici, non tutti veri, del suo harem); in pochi sono riusciti a raccontarlo senza farsi ubriacare dalle sue finte. Come  Jimmy Burns, che nella sua splendida biografia Maradona – edita da Rizzoli e tradotta di recente in italiano – ha dipinto il pibe de oro con una tavolozza di parole che non potevano piacergli: «Il difetto più tragico di Maradona sta in quanto lui stesso abbia perpetuato, con le sue dichiarazioni e la sua condotta, il mito della sua condizione quasi divina, senza però assumersi pienamente la reponsabilità delle sue mancanze».

Si è arricchito, involgarito, ma imborghesito mai. Di questo bisogna dargli atto. È andato finanche oltre il racconto biblico, indicando la terra promessa a un popolo che non era il suo. E lo ha fatto non vagando nel deserto, ma liberandolo da un deserto di trofei. «Ha offerto agli argentini non soltanto un’identità, ma una via di fuga», scrive Burns. La sua fuga da Napoli è il principio di un’identità spezzata, ma che non morirà nemmeno dopo la morte di Diego.

Maradona è stato un dio ma non un santo. I suoi eccessi sono lì a dimostrarlo; è stato di tutti, ma non appartiene a tutti, perché ciò significherebbe strapparlo alla sua gente. Ha amato Napoli ed è entrato nel suo ventre, come forse solo Matilde Serao era riuscita a fare un secolo prima. Ma è diventato anche la prigione involontaria di se stesso e dei suoi “figli”. Qualsiasi calciatore sbarcato a Napoli dopo di lui dovrà misurarsi con la sua statura. E così la storia continuerà a fermarsi.

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