Covid-19: la testimonianza di Angelo

In tutta sincerità non avrei mai pensato di scrivere qualcosa su questo maledetto e perfido virus COVID-19 e men che meno di descrivere il mio caso, parlando delle mie impressioni o delle paure che mi occupavano la mente, mentre – attaccato all’erogatore dell’ossigeno e allacciato a tanti tubicini che riempivano le vene di antibiotici e altri medicinali – cercavo disperatamente di lottare contro la morte. In quei momenti non pensavo ad altro che a fare progressi, anche perché l’alternativa a quella terapia sarebbe stata la sedazione e relativa intubazione.

L’idea mi è venuta dopo l’incontro con l’infermiera incaricata di darmi tutte le necessarie “istruzioni” quando sono stato dimesso dal reparto COVID-19 dell’Ospedale Cantonale di Winterthur.

Durante il colloquio avevo espresso alla signora – vice caposala del reparto – tutta la mia gratitudine per lei e per tutto il personale medico-sanitario che si era avvicendato al mio letto: tanto avevano fatto e tanto si erano prodigati spendendo il loro sapere e la loro esperienza, ma soprattutto mi avevano dimostrato straordinaria disponibilità e abnegazione. Avevo anche aggiunto che era mia intenzione, una volta tornato a casa, di scrivere una lettera di ringraziamento alla Direzione dell’ospedale per comunicare tutto il mio apprezzamento.

A questo punto un velo di tristezza era calato sugli occhi della giovane e, come se volesse sfruttare quell’occasione per liberarsi dell’amarezza accumulata nel tempo – in particolare negli ultimi mesi di duro e pericoloso lavoro – aveva esclamato: «Lo faccia, per favore! Se le sue non sono parole di circostanza e se crede davvero in quello che mi ha appena detto, lo scriva a chi di dovere, perché qui non funziona come dovrebbe. Lei non può nemmeno lontanamente immaginare in quali condizioni a volte siamo costretti a lavorare. Saltiamo pasti, turni di riposo, spesso siamo costretti a rimanere in corsia giorno e notte, perché anche noi ci ammaliamo e purtroppo molti colleghi si contagiano e alcuni non tornano più. Noi ce la mettiamo tutta, molto spesso andiamo anche oltre quelle che sono le nostre competenze, ma alla fine si fa quel che si può… Credi di essere a posto con te stesso per aver svolto con coscienza il tuo dovere e invece da parte della Direzione arrivano critiche e rimproveri che ti fanno mettere in dubbio tutto…».

Dopo un attimo di pausa per verificare l’eventuale ricezione di un messaggio di via sul cellulare, aveva continuato: «Quello che le dirò non la riguarda… lei ha vissuto e vinto la battaglia contro il COVID-19. Ci sono però tanti altri pazienti che, sfiniti dalla sofferenza – specie se non hanno ancora raggiunto dei buoni risultati – iniziano a inveire contro di noi, ad accusarci di non fare abbastanza… qualcuno arriva anche alle offese personali! Lei ha avuto modo di accertarsene in prima persona: per guarire bisogna essere in due, la fiducia deve essere totale e reciproca, e questo vale per tutta la durata della terapia. Il personale medico sanitario deve essere sicuro che il paziente sia disponibile e che il suo unico desiderio sia quello di guarire, mentre da parte sua il paziente dovrebbe abbandonarsi totalmente alle cure che gli vengono somministrate. Soltanto quando si raggiunge una tale sinergia tra personale curante e paziente, si ha una possibilità concreta di sconfiggere il male. Ha potuto constatare di persona l’atteggiamento del suo compagno di stanza, così diverso dal suo…».

Per un po’ ero rimasto in silenzio, non avrei nemmeno saputo cosa dire. Un tale sfogo, aperto e diretto, non me lo aspettavo, anche perché mi era parso che tra il personale in corsia regnasse una grande serenità, spirito di collaborazione e di solidarietà. In nessun caso avevo notato insoddisfazione. Quella amara confessione mi faceva capire che non esistono isole felici, nemmeno la Svizzera lo è, e che molti, tanti dei problemi che conosciamo nel nostro Paese sono riscontrabili e comuni anche in altre nazioni.

L’infermiera aveva controllato il cellulare e con un sorriso pieno di orgoglio e soddisfazione mi confermò che finalmente potevo essere dimesso per trascorrere un ulteriore periodo di cure e isolamento presso una struttura post COVID-19. Proprio in quel momento fu avvertita che era arrivato il taxi per me, così prese le mie borse e mi accompagnò all’uscita, dove bisognava osservare una procedura tutta particolare. Le mie borse furono sanificate e chiuse in dei sacchetti gialli, poi fu il mio turno per la disinfezione, dopodiché mi fu permesso di uscire da quel posto di blocco e di salire sull’auto che mi avrebbe portato in una nuova struttura, dove rimasi dal 13 al 19 gennaio.

***

E dire che tutto era iniziato nel migliore dei modi: il viaggio a Zurigo per l’arrivo del terzo nipotino – il primo maschietto! – era stato programmato per tempo avendo l’attenzione di curarne anche i minimi particolari.

Appena avuta la notizia dell’arrivo del nuovo membro della famiglia, previsto per la metà di dicembre 2020, mia moglie  (che l’anno prima aveva ricevuto il grande onere e piacere di accudire la propria madre) all’arrivo dei fratelli per le vacanze estive li aveva riuniti tutti comunicando loro che, a causa di questo evento lieto e straordinario, avrebbe avuto bisogno di almeno un mese di libertà – precisamente da metà dicembre 2020 a metà gennaio 2021 – e bisognava quindi trovare una sistemazione ottimale per l’anziana genitrice.    Un notevole supporto era giunto dalla sorella minore e così il 5 dicembre mia moglie e mia suocera si imbarcarono sull’aereo Brindisi-Zurigo, attese dall’ultima della progenie che con la propria automobile accompagnò la quasi novantenne madre in Germania presso l’altra figlia disponibile ad accoglierla. Per quanto riguardava me, tra impegni da rispettare e pagamenti da fare, avevo prenotato il mio volo per domenica 20 dicembre: motivo di sfottò da parte dei miei amici, per i quali era entrata in gioco la mia solita fortuna (il 21 sarebbe entrato in vigore l’ennesimo DPCM anti COVID-19, con le nuove restrizioni e relativo lock-down fino al 7 gennaio 2021). Il viaggio andò come previsto; all’ora di pranzo tutta la mia famiglia era riunita e potevo finalmente abbracciare e stringere al petto il nuovo arrivato. Era tutto così bello che nessuno poteva immaginare che una spada di Damocle pendesse sulla testa di noi tutti… né che (non si sa come) quel subdolo e maledetto virus COVID-19 si fosse introdotto nel mio corpo e ne stesse prendendo possesso.

I primi sintomi si presentarono due giorni dopo, il 22, ma non ci feci caso addebitando quella leggera febbre alla mia cattiva abitudine di non fonarmi i capelli dopo la doccia e di non usare berretti o cappelli, non tenendo conto che il clima di Zurigo non è paragonabile a quello del Salento! Man mano che passavano le ore, però, la febbre aumentava e con essa la mia spossatezza: non avevo appetito, avevo difficoltà a buttare giù qualcosa, non mi reggevo in piedi, non riuscivo nemmeno a farmi la barba… così, anche per mia sicurezza, il giorno 24, Vigilia di Natale, alle nove del mattino mi feci accompagnare da mia figlia al centro COVID dell’ospedale di Winterthur per sottopormi al tampone. Nel freddo capannone allestito nel cortile antistante l’ospedale, in attesa del mio turno, ero preda dei tanti pensieri che affollavano la mia mente, benché una parte di me cercasse ostinatamente di negare la possibile positività.

Le ore che seguirono furono di enorme sofferenza. Non avevo voglia di fare niente, stavo buttato sul divano e a mia moglie che per distrarmi mi chiedeva se volessi un tè o una bevanda fresca, rispondevo che stavo così a causa della febbre che comunque continuava a salire. Già era preoccupata di suo e non le potevo certo confessare che ero in ansia per la snervante attesa della comunicazione del Centro Covid. Si sarebbe angosciata ancora di più. E finalmente nel tardo pomeriggio arrivò la sentenza: positivo al COVID-19!

La notizia ebbe un effetto devastante, il mondo mi crollò addosso e cominciai a temere per il resto della famiglia: per i figli, le nipotine e soprattutto per il piccolino che aveva appena nove giorni, per mia moglie che ovviamente fra tutti era la più esposta al contagio. Sprofondato sul divano mi facevo mille domande, in primis: dove e quando mi sono contagiato? Ogni giorno avevo ripetuto gli stessi movimenti, fatto le stesse strade per evitare di incontrare persone, disinfettandomi anche più del dovuto… ormai era un anno che come tutti convivevo con il virus e non mi era mai successo niente! Ero distrutto e mia figlia, che manteneva i contatti con le Autorità Sanitarie svizzere, cercava di rassicurarmi: «Papà, ma di che ti preoccupi? Hai sentito anche tu, sei positivo e devi stare in quarantena fino al 3 gennaio. Dal giorno dopo sei nuovamente libero di muoverti come vuoi e soprattutto potrai rivedere e giocare con le nipotine!». Per avvalorare quanto asseriva, ma soprattutto per farmi coraggio, mi raccontava di un suo amico di Zurigo che come me era risultato positivo e dopo alcuni giorni di febbre, e la prevista quarantena, ne era uscito guarito.

In cuor mio le ero grato di questi sforzi per cercare di tenere alto il mio morale, ma sapevo perfettamente che le cose per me sarebbero andate diversamente, lo sentivo. E infatti, già il giorno di Natale iniziai a peggiorare sensibilmente: ormai non riuscivo a stare in piedi, ma nemmeno seduto sul divano. La febbre intanto impazziva e l’unica cosa che mi aiutava era starmene a letto e sudare tantissimo per farla scendere. Ero costretto a cambiare pigiama e lenzuola più volte al giorno. Considerato che la situazione diventava sempre più critica, il 30 dicembre decidemmo di chiamare il medico: una dottoressa arrivò dopo un’oretta. Mia figlia le spiegò tutta la situazione, dopodiché la donna mi visitò, mi prescrisse delle medicine e mi consigliò di bere molto.

Fiducioso di guarire, seguivo scrupolosamente la terapia, ma la mia situazione andava sempre più aggravandosi: non ero in grado di prendere cibo, l’unica cosa che ancora riuscivo a ingerire era l’acqua, non a mandar giù un sorso di  spremuta. La dottoressa evidentemente non aveva capito molto, pur avendo mia figlia spiegato che ero risultato positivo al COVID-19; infatti i medicinali prescritti facevano scendere temporaneamente la febbre, ma le mie condizioni peggioravano a vista d’occhio, diventando sempre più critiche. La svolta, in negativo, arrivò domenica sera 3 gennaio. Non riuscivo a stare in piedi nemmeno per qualche secondo, non connettevo più, l’unica cosa che riuscii a dire prima di crollare sul letto in uno stato semicomatoso fu: «Per favore, domani mattina chiamate un medico, mi sento morire».

Appena giorno, mia figlia chiamò nuovamente il “Centro SOS Medici” e dopo una ventina di minuti arrivò una dottoressa che, appena mi vide, ebbe subito chiaro il quadro della situazione. Ricordo vagamente che mi fece qualche domanda, alla quale evidentemente non risposi in modo soddisfacente. Soltanto dopo essere tornato a casa guarito ho saputo da mia figlia che la dottoressa si era molto arrabbiata nel sentire che una sua collega mi aveva visitato qualche giorno prima. Secondo lei avrei dovuto essere ricoverato già il 30 dicembre e confermò che era l’unica cosa da farsi con la massima urgenza. Ho saputo sempre da mia figlia che il medico stesso telefonò in ospedale per avvertire del mio arrivo e subito dopo chiamò l’autoambulanza. Fatto questo mi mise una flebo e il pulsossimetro al dito. La saturazione dell’ossigeno non era per niente buona, raggiungeva a malapena il 70%. Per mia fortuna nella borsa aveva una bottiglia di ossigeno da litro (e nemmeno piena), ma mi applicò il tubicino al naso e così potei tirare un po’ di fiato. Questo mi fu di grande aiuto, perché recuperai un po’ di forze e potei raggiungere da solo e quasi senza aiuto – anche se la dottoressa rimase sempre al mio fianco – l’autoambulanza parcheggiata nel piazzale antistante la casa.

Quello fu uno di quei momenti che non dimenticherò finché vivrò: giù, accanto all’ingresso, c’era mia moglie; non ricordo se piangesse o meno, so che la dottoressa mi chiese se volessi salutarla, ma non ebbi il coraggio di toccarla, forse per timore di contagiarla; so che mi avvicinai e le dissi: «Rimanete uniti, qualsiasi cosa accada, rimanete uniti». Non ricordo se mia moglie rispose qualcosa, ma uscì insieme a me e si fermò di fronte all’ingresso, accanto a una delle mie nuore che passando da quelle parti aveva visto l’ambulanza e si era avvicinata.

Appena raggiunto il mezzo di soccorso, fui steso sulla portantina… da quella posizione  potevo vedere mia figlia che osservava la scena dal balcone, mentre mia nuora, accanto a mia moglie che sembrava impietrita, mi salutava con la mano. Con quel poco di lucidità che avevo recuperato grazie all’ossigeno, cercai di fissare nella memoria quelle immagini che mi avrebbero fatto compagnia per chissà quanto tempo e feci per alzare il braccio per ricambiare il saluto, ma non mi fu possibile, perché la barella era stata risucchiata dal carrello dell’autoambulanza e automaticamente fu chiuso anche il portellone. Avrei voluto gridare di riaprire, perché volevo rivedere almeno un’altra volta i miei cari, ma non ne ebbi la forza, il grido mi rimase in gola. Riconosciuta la mia impotenza, mi abbandonai allo sconforto. Il rumore dello sportello che si chiudeva continuò a rimbombarmi nella testa per tutta la durata del viaggio fatto a sirene spiegate verso il mio destino. Di colpo mi sentivo smarrito, abbandonato, come se una pietra tombale fosse stata fatta cadere su di me.

Intanto l’infermiere che stava con me nell’autoambulanza mi disse di togliermi il giaccone, perché faceva caldo. Ma perché dovevo togliermelo se sentivo freddo? Era come se uno strato di gelo avesse avvolto tutta la mia persona, come se dovessi essere ibernato, mentre continuavo a tremare come una foglia, sicuramente anche a causa della febbre che stava risalendo. Visto che non reagivo, provvide lui a sfilarmelo. Ora stavo lì steso, infreddolito e senza giaccone, e non riuscivo a capire perché… mi fu chiaro quando arrivammo al Pronto Soccorso, dove fui trasportato nel “container” n. 070 e messo sul lettino. Ora avevo capito: c’era davvero poco spazio e spostarmi sul lettino senza giaccone sarebbe stato più semplice. Il portantino consegnò le mie cose all’infermiera insieme ai documenti e agli esami fatti durante il trasporto e andò via.

La prima cosa che fece l’infermiera, prima di assentarsi per alcuni minuti, fu quella di togliermi il pigiama dicendo: «Questo non serve, qui siete tutti uguali, abbiamo le nostre divise». Mi infilò poi una specie di grembiule aperto di dietro, poi prese i miei indumenti, li mise in una busta gialla con tanto di COVID stampato sopra e la buttò in un angolo. Stessa destinazione seguì la borsa che mia moglie aveva preparato in fretta e furia. Poi per qualche minuto, che sembrò una eternità, rimasi solo in quel container dalle dimensioni di un box per auto. Il colore dominante era il giallo, come a volermi ricordare il virus che mi aveva fatto arrivare lì. Non sapevo cosa pensare. Quel numero 070 che campeggiava di fronte mi ricordava che siamo esseri viventi, ma quando arriviamo al dunque diventiamo dei numeri e non siamo padroni di noi stessi. Il pensiero tornò a mia moglie, a mia figlia e a mia nuora che rivedevo mentre mi salutavano. Ero solo con me stesso, affidato alla disponibilità di persone che potevano decidere sul mio destino. Proprio in quel momento entrò un infermiere con una bombola di ossigeno che posizionò sotto al mio lettino e che collegò ai tubicini che avevo già al naso. Mentre armeggiava per regolare il flusso d’ossigeno, entrò una sua collega che prese il mio braccio destro e mi disse che doveva farmi dei prelievi di sangue. In silenzio mi lasciavo fare tutto quello che volevano… avrei potuto forse oppormi? E poi quando si sta male, non si ha la forza nemmeno di chiedere perché.

Uscendo per portare le provette in laboratorio, l’infermiera incrociò il Responsabile del Pronto Soccorso Covid; i due si scambiarono delle parole per me incomprensibili, perché parlavano il tedesco svizzero. Questi si avvicinò a me e mi chiese se parlassi lo svizzero, con un filo di voce risposi di parlare il tedesco. Il container era talmente angusto che il dottore stava quasi appiccicato al lettino. Disse che la mia situazione era critica, molto critica, e iniziò a spiegarmi quello che avrebbero fatto… al momento stavano facendo analizzare il mio sangue e, appena disponibile l’apparecchiatura, mi avrebbero fatto una TAC per vedere in che stato fossero i miei polmoni. Detto questo, si tolse il camice e i guanti che buttò in un bidoncino accanto alla porta e andò via. Di nuovo solo, cercai di richiamare alla memoria quello che mi era stato detto, anche perché quando mi parlavano riuscivo sì a sentire, ma non a comprendere pienamente. Fui interrotto da due infermieri che mi presero e mi portarono nella sala per fare la TAC. L’addetto mi si avvicinò, mi fece la solita domanda sulla lingua e confermato che parlavo il tedesco, mi spiegò quello che avrei dovuto fare e mi aiutò egli stesso a spostarmi sull’apparecchio. Dopo alcuni minuti, l’esame era fatto e fui riportato nel mio container n. 070. Chiusi gli occhi, più per non vedere il posto in cui mi trovavo che per riposare, poiché di riposo non si poteva proprio parlare.

Ad un tratto quella quiete fu spezzata dall’arrivo di due infermieri; con loro c’era anche il Responsabile che impartì degli ordini: mi furono prelevate altre tre fiale di sangue e fu regolato nuovamente il flusso dell’ossigeno. Il Capo raccomandò di dire in laboratorio di fare in fretta. Rimasto solo con me il dottore mi chiese se capissi tutto ciò che mi diceva. Risposi di sì e iniziò a dire: «Contrariamente a quello che le ho già detto, la sua situazione non è solo critica, ma davvero seria, per non dire grave… Abbiamo ripetuto l’esame del sangue e riguarderemo meglio la TAC, ma devo comunicarle che dovrà essere sedato e intubato. Ho già provveduto ad avvertire la sala operatoria. Procederemo appena sarà libera».

Avuto il mio assenso – e che alternative avevo? – il medico andò via. Nuovamente solo in quel budello di metallo, ripensai a quello che mi aveva detto il dottore e alle tre parole che continuavano a echeggiare: grave, sedare, intubare. Avevo subito acconsentito senza esitazione alcuna e in effetti in quel momento non pensavo ad altro che alle mie sofferenze. L’unica cosa che desideravo era quella di non dover più soffrire e sarei stato disposto ad accettare qualsiasi proposta, anche la più indecente, pur di essere accontentato. Mi sentivo svuotato di speranza, il desiderio dominante era quello di smettere di soffrire e a questo punto non mi sarebbe dispiaciuto nemmeno porre fine anticipatamente alla mia esistenza terrena, tanto a questo ci stava già pensando il virus subdolo e maledetto, che chissà come era riuscito a penetrare nel mio corpo e in poco tempo lo aveva devastato. Pur con dolori lancinanti mi sorpresi a pensare a come fossi sfortunato: era il 4 gennaio e anziché finire la quarantena, anziché essere libero di uscire e godermi la città, ero finito in ospedale, dove stavo per essere addormentato e chissà quando mi avrebbero risvegliato, sempre che mi fossi risvegliato!

Ma… chiamiamolo destino, Fato… qualcuno da qualche parte mi stava seguendo con particolare attenzione e venne in mio aiuto. Non potevo essere intubato, perché la sala operatoria del reparto era occupata e lo sarebbe rimasta ancora per chissà quanto tempo, così fu deciso di rimandare l’intervento al giorno seguente e fui portato in corsia, stanza n. 084, dove trovai un altro paziente covid, che però sarebbe uscito due giorni dopo. L’indomani mattina, 5 gennaio, poco dopo le otto, arrivarono le infermiere che mi controllarono la pressione, i battiti cardiaci, la saturazione e mi fecero un ulteriore prelievo del sangue riempiendo però solo due fialette al posto delle sei del giorno precedente. Tanto disinteressato il giorno prima riguardo a ciò che mi facevano o avrebbero voluto fare, tanto più sconcertato ero ora. Le infermiere parlavano tra di loro questa incomprensibile lingua Schwitzer-Dütsch, ma non riuscivo a capire niente… avvertivo solo un grande malessere dentro di me, ora dovuto sicuramente alla paura. Mentre il giorno precedente non avevo dato quasi nessun peso alle parole sedare e intubare, ora che avevo ripreso una piccola quota delle mie facoltà avevo paura, non volevo essere ridotto ad un quasi vegetale e soprattutto non volevo sottopormi a questo tipo di terapia che avrebbe annullato per chissà quanto tempo il mio ego!

Nel frattempo era arrivato anche l’anestesista che mi chiese conferma del mio peso e, visto che mi aveva interpellato, trovai il coraggio di chiedergli per quanto tempo sarei rimasto sedato. Facendo spallucce, mi rispose che nessuno era in grado di dirlo, dipendeva tutto da come il mio corpo avrebbe reagito alle cure e anche dalla forza del virus. Aggiunse: «Fisicamente credo che stia bene, ma il suo corpo si è parecchio indebolito in questi ultimi giorni e pertanto non può essere fatta nessuna prognosi».

Ora stavo peggio del giorno prima. Voltai lo sguardo verso la finestra e guardai la neve che cadeva lentamente, temendo di vederla per l’ultima volta.  Naturalmente il pensiero andò a mia moglie, ai miei figli e soprattutto ai nipoti, anche a quello la cui nascita era prevista per i primi di giugno. Mi vedevo già nell’aldilà, o come ero solito dire quando scherzavo con la mia amica, in Via Sant’Angelo, la strada che porta al cimitero del mio paese. Ma da qualche parte, appunto, qualcuno aveva deciso diversamente…

Proprio mentre stavano per portarmi via, entrò nella stanza il Primario del Reparto COVID; fermatosi di fronte a me, si fece dare la mia cartella clinica e, controllati i valori delle ultime analisi, disse: «La sua situazione è critica, ma vorrei farle una proposta che potrebbe rendere non necessaria l’intubazione. Da un po’ di tempo negli Stati Uniti viene sperimentato con successo un medicinale anti-covid che noi qui in Svizzera seguiamo con particolare interesse e attenzione, ma che non abbiamo ancora provato su nostri pazienti. Vuol provarlo lei? Se il suo fisico non dovesse reagire nel modo sperato, potremmo sempre ricorrere alla intubazione».

Notizia migliore non potevano sentire le mie orecchie e senza pensarci due volte dissi di essere disponibile, così dopo nemmeno dieci minuti ebbe inizio la terapia con questo antivirus statunitense. Il Primario prescrisse di usare la maschera facciale per la ventilazione e, se ne fossi stato capace, di usarla in una posizione molto scomoda ma che avrebbe sortito effetti migliori: la ventilazione in “pronazione” per tre cicli al giorno della durata di due ore cadauno, spesso anche di due ore e mezza (quando me la sentivo). Aggiunse pure che per rendermi la terapia più agevole, mi avrebbero sedato, ma solo leggermente. Risposi che in nessun caso desideravo essere “calmato”. Stare a pancia in giù per tanto tempo era molto faticoso e spesso avrei avuto voglia di cambiare posizione, ma quando ricordavo a me stesso che erano sacrifici necessari per guarire questi erano i momenti in cui ci rimanevo più a lungo. Mio desiderio era vivere e quando la resistenza raggiungeva i limiti della sopportazione e stavo per gettare la spugna, mi riprendevo minacciandomi da solo col pericolo della sedazione.

Per farmi coraggio mi dicevo che già pativo le mie sofferenze e aggiungerne qualche altra (come questa di respirare in pronazione) non mi avrebbe comportato nessun problema, soprattutto se mi avesse aiutato a guarire. L’unica cosa che volevo era uscire vittorioso da quella battaglia contro il virus … ero pronto a qualsiasi cosa pur di poter vedere uno spiraglio di luce in fondo al tunnel. Il fatto poi di essere riuscito, naturalmente non solo per meriti propri, ad evitare di fare la fine dei tanti che erano stati intubati e, in un certo senso, di potermi sentire responsabile del mio destino, o meglio della buona riuscita della terapia, contribuiva a darmi sempre più coraggio. Il momento di crisi, il momento in cui sarei stato pronto ad arrendermi e smettere così di soffrire era passato. Ora volevo lottare con tutte le mie forze, naturalmente con l’aiuto e sostegno del personale medico: tutto per recuperare me stesso e risollevare quella pietra tombale che sembrava essere stata calata su di me appena entrato nell’autoambulanza.

Leggo i primi appunti tracciati sui fogli chiesti in ospedale:

Mercoledì 6 gennaio: oggi è il compleanno di mia figlia, sono molto triste e rammaricato, perché non posso farle nemmeno gli auguri, ma ancor di più perché non posso contattarla e rassicurare lei e mia moglie che mi sono parzialmente ripreso e soprattutto che è stato scongiurato il pericolo “sedazione”. Ho finito da poco la seduta in pronazione e dopo essermi rinfrescato il viso mi sono steso supino nel letto, contento di aver portato a termine la prima seduta giornaliera della terapia. Con gli occhi socchiusi medito su come poter contattare i miei, quando due infermiere irrompono ridendo nella stanza e mollano una borsa sul mio letto. Le guardo incuriosito senza parlare e una mi dice che è per me, è stata portata già al mattino presto, ma per motivi sanitari, cioè covid, hanno potuto consegnarla solo adesso. Sempre ridendo sono andate via senza aggiungere altro. Naturalmente non perdo tempo e apro la borsa. Dentro, oltre alla biancheria e un accappatoio, ci trovo anche il cellulare di mia moglie con la scheda svizzera. Ora non sono più isolato, penso subito, ora posso telefonare, finalmente potrò informarli e rassicurarli sul mio stato di salute!

Purtroppo il cellulare di mia figlia è occupato. Deluso e sconfortato mi lascio cadere sul letto; finalmente dopo tanto tempo potrei telefonare e invece… Socchiudo gli occhi e continuo ad esercitarmi nella respirazione come mi è stato consigliato, tanto (mi dico) mia figlia telefonerà appena vedrà la mia chiamata. Sono così assorto nei miei pensieri che quasi corro il rischio di cadere dal letto allo squillo del cellulare. Non sono in grado di descrivere ciò che provo nel sentire le voci di mia figlia e di mia moglie che ripetono: «Come stai, come ti senti?». Mia figlia, quasi scusandosi, mi dice: «Papà, ho parlato poco fa con il Primario del tuo reparto… Sai, dall’ospedale ci chiamano ogni giorno nel pomeriggio e di solito è la Caposala o una sua delegata a informarci sul tuo stato di salute, ma oggi lui ha voluto riferirci di persona che stai facendo progressi e che hai accettato di essere curato con un antivirus che sta avendo molto successo negli Stati Uniti, ma non era stato mai sperimentato in Svizzera… Tu sei il primo, e stai reagendo positivamente alla terapia! Ha pure aggiunto che hai rifiutato di farti sedare parzialmente durante la ventilazione in “prostrazione” e che sei molto bravo».

Faccio appena in tempo a porgerle gli auguri per il suo compleanno che devo chiudere: è arrivato il pranzo.

Giovedì 7 gennaio: Sono molto agitato, sento che qualcosa non sta andando come dovrebbe. Ho trascorso una notte nervosa, non sono riuscito a chiudere occhio, soprattutto a causa dell’alternarsi degli infermieri al mio letto e a un certo punto è stato coinvolto anche il medico di turno. Ho quasi 38 di febbre e i valori di saturazione, pur avendo aumentato il volume di ossigeno da tre a quattro litri, scendono anziché salire.

Venerdì 8 gennaio: Sono un pochino più tranquillo; considerata la mia situazione, i valori sono rientrati nella “norma” e continuano a migliorare, anche se questa notte credo di aver corso qualche rischio. Verso le tre del mattino ho sentito un forte dolore all’avambraccio sinistro dove mi avevano applicato l’ago per le infusioni, ho acceso la luce e chiamato subito l’infermiera: il tubicino era pieno di sangue. Mi hanno applicato l’ago in un’altra parte del braccio e ho potuto riposare.

Sabato 9 gennaio: nemmeno la telefonata con mia moglie riesce a eliminare la tristezza che mi blocca lo stomaco. Proprio per non discutere con l’infermiera, questa mattina a colazione ho bevuto un po’ di latte. Maledetto covid, che mi tiene bloccato a questo letto. E pensare che a quest’ora avrei potuto essere comodamente seduto sull’aereo per Brindisi!

Domenica 10 gennaio: oggi ho capito di essere quasi guarito. Dopo la seconda seduta di ventilazione in “pronazione”, l’infermiera ha preso la maschera con l’apparecchiatura e dicendo: «Questa non serve più!» l’ha portata via. Le sorprese però non sono finite: al marchingegno delle flebo ci sono solo tre sacche, manca quella dell’antivirus statunitense.

Lunedì 11: mi hanno liberato da tutti gli allacci e mi consigliano di camminare in corsia, senza superare però i settori delimitati con un nastro adesivo, naturalmente giallo.

Martedì 12: durante il giro in corsia il Primario mi conferma che il virus è stato sconfitto, aggiungendo che sono immune e non posso contagiare, né essere contagiato. Mi dice inoltre che l’indomani verrò trasferito in una struttura post covid, dove dovrò rimanere sei giorni.

Venerdì 15: la pena di questi giorni di isolamento è stata interrotta da un evento inaspettato che mi ha riempito di felicità immensa. Ho avuto il permesso di ricevere della biancheria pulita da casa. So chedovrebbe venire mia figlia, ma l’infermiera non mi ha detto quando. Sono le quattro del pomeriggio e come mio solito sfrutto quest’ora per muovermi, senza disturbare gli altri ospiti della struttura che stanno riposando. Faccio sempre le solite cose, a volte mi paragono ai matti in un manicomio: cammino, quando arrivo alla finestra do uno sguardo fuori e ricomincio daccapo. A un certo punto vedo parcheggiata l’auto di mia figlia e busso al vetro per attirare la sua attenzione. Nel frattempo arriva l’infermiera che mi dice: «Può anche aprire la finestra e parlare». Non riesco ad esprimere i miei sentimenti, la gioia e la commozione nel parlare, ma soprattutto rivedere mia moglie e mia figlia dopo tanti giorni.

Martedì 18: da sei giorni ormai mi trovo in questa struttura. Sempre la solita routine: le ore del giorno sono scandite dalla distribuzione dei pasti e dai controlli che effettuano le infermiere per monitorare febbre, pressione,  polso e saturazione, ma questa monotonia non mi scompone e non mi pesa in modo eccessivo. Fa parte dei sacrifici fatti fin qui per guarire e tornare a casa… così continuo a camminare e a fare esercizi di respirazione, come mi hanno consigliato. È difficile fare movimento in un corridoio di circa 80 metri, ma ho camminato sempre, anche per stancarmi.

***

Il tanto atteso 19 gennaio, giorno delle mie dimissioni dalla struttura post Covid “Adlergarten” di Winterthur, è arrivato. Già dalle otto e trenta sono pronto per uscire, ma devo attendere la documentazione. Sono teso, temo sempre che qualche cosa vada storta e mi costringa a rimanere: basta anche soltanto mezzo grado di febbre, come mi ha detto l’infermiera la sera prima. Passeggio con trepidazione lungo il corridoio dando di tanto in tanto uno sguardo dalla finestra per controllare la strada. Finalmente e con molto ritardo mi vengono consegnati i documenti, così presa la borsa seguo l’infermiera che mi accompagna all’uscita dove mi attendono da qualche minuto mia moglie e mia figlia.

All’ansia di prima subentra un sentimento di felicità così intenso e totalizzante che dopo un breve saluto rimaniamo in un silenzio assorto per tutta la durata del viaggio. È umanamente impossibile spiegare ciò che provo: sembra un sogno, ogni cosa mi appare irreale…

Faccio fatica a salire fino al secondo piano e arrivato davanti alla porta dell’appartamento rimango qualche minuto sul pianerottolo non solo per riprendere fiato, ma soprattutto per godere appieno questo momento. Com’è diverso ora rispetto a quel lunedì.

Mia moglie mi guarda preoccupata vedendomi appoggiato al passamano e fa per venirmi incontro temendo qualche malore, ma la rassicuro e dico: «Che strano, mi sembra sia trascorso tanto tempo da quel mattino, o forse sarebbe più opportuno dire che… è passata una vita?».

 

 

 

 

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