L’artista e il modello. Il soggetto e il ritrattista. Stanley Tucci questa volta è alla sua quinta regia e non davanti la macchina da presa come (bravo) attore. Nell’apparente banalità della trama, l’artista qui è Alberto Giacometti (Geoffrey Rush) e il soggetto in posa il giovane scrittore statunitense James Lord (Armie Hammer). Per questo ritratto commissionatogli dallo scrittore, i due giorni previsti diventano diciotto, scanditi da conversazioni, riflessioni sull’arte, continue interruzioni, insofferenze, distrazioni, tele strappate, bar, bottiglie di vino, prostitute. Perché siamo di fronte a Giacometti, non uno qualunque. Classico genio e sregolatezza nella Parigi del 1964. James Lord fu all’epoca un appassionato d’arte e amico di artisti come Picasso e Giacometti, cui dedicò due biografie. L’unico grande pregio di questo film è tutto nello scenografo James Merifield che ha riprodotto fedelmente il famoso studio di Giacometti, in Rue Hppolyte-Maindron, dietro Montparnasse, un atelier a piano terra, luminoso e polveroso, un caos infinito di opere iniziate e mai completate, calchi, sculture, gessi, disegni, “homme qui marche” in varie dimensioni, migliaia di sigarette accese e mai spente, la camera da letto attigua. Una specie di concerto da camera, il parigino, l’americano e pochi altri figuranti, clienti, amici, prostitute amiche e amanti, belle e maliarde da perderci la testa. Sua moglie sopporta tutto questo, in nome dell’arte. Ma la vera natura dell’arte è nella sua incompiutezza. Ne era convinto Giacometti che trascorse l’intera vita a fare e disfare le proprie opere, senza mai ritenerle davvero soddisfacenti. Non fa eccezione questo ultimo ritratto, con la pazienza messa a dura prova per il giovane americano incravattato come un damerino di una rivista di moda e impreparato all’anima tormentata, infantile, recalcitrante, del grande artista svizzero, nell’ossessione maniacale, perfezionista, nella ricerca impossibile di un’arte contemporanea, accettabile in quanto presente o postuma. Impressiona il volto di Geoffrey Rush verosimigliante al grande artista, perfettamente truccato e imparruccato tanto da apparire caricaturale, manierista. Ci si appassiona a lui come ci si appassiona a un’icona dell’arte. Non appassiona invece la storia, incatenata a cliché francesizzanti come solo gli americani sanno fare. Non appassiona il titolo appiccicato, “l’arte di essere amici”, ennesima traduzione infelice per il mercato italiano. Se tutto ciò poteva essere un atto creativo, un tributo alla bellezza e ai dubbi sull’arte, il risultato è invece un grande dubbio sull’(in)utilità di un film stereotipato, utile forse solo per chi ancora non conosce il grande artista, il più quotato del terzo millennio. Meglio allora contemplare la riproduzione del mio falso Giacometti, “l’uomo che cammina”, che da anni mi osserva immobile, come piccolo funambolo, e che io interrogo giornalmente, nel mio salone.
Final Portrait
