Il canto dell’Ippopotamo

Eravamo tutti in casa, eravamo stati privati dei contatti umani ed eravamo terrorizzati perché una pandemia aveva colpito tutto il pianeta. Eppure la vita andava avanti ed il tempo continuava a scorrere; c’era chi continuava a leggere e chi continuava a dispensare consigli di lettura. Nel mio caso, invece, stavo vivendo il mio primo “blocco del lettore”. Nonostante tutti i titoli che avevo a disposizione in casa, non riuscivo a trovare niente di così interessante da leggere. Strano! Ma una mattina, aprendo la mia pagina Facebook, venne fuori il post del mio libraio di fiducia. In quel post, teneva in mano un libro, “Il canto dell’Ippopotamo” di un autore che non conoscevo, un certo Garlini. Ciò che mi colpì fu innanzitutto la copertina, semplice e pulita, senza troppi fronzoli. Lo sfondo bianco, il titolo in alto, la figura di profilo di in uomo che si copriva il volto, e nient’altro. Leggendo il post del mio amico libraio, poi, mi colpì la frase che aveva utilizzato per parlarne ed altro non era che un passaggio del libro stesso: “Non credo che esista una vita completamente felice, o almeno io non l’ho mai sperimentata, né in me né negli altri, ma credo che quando con il passare degli anni cambiano i processi chimici nella nostra mente, anche se non si sa esattamente cosa cambi e perché, ecco, credo che il dolore perda lo smalto, si attutisca. Quello che sembrava insormontabile diventa sormontabile, quello che sembrava tremendo diventa solo spiacevole.” Immediatamente decisi che dovevo averne una copia.

Ai sensi di una DAG del Presidente del Consiglio che permetteva la riapertura delle librerie (perché qualcuno finalmente aveva compreso che nutrire la mente con un buon libro era fondamentale come lo era riempire lo stomaco e che curare l’anima con la lettura era importante come curare una ferita con l’acqua ossigenata), mi recai in libreria a prendere quel libro.

La sera stessa, sul mio letto, mi misi tranquilla, nel silenzio di una casa addormentata e presi a leggerlo, alle 22 circa. Decisi di fermarmi all’una di notte, ma non perché avevo sonno, ma perché non mi sembrava corretto finire quel libro in una sola notte. Mi sembrava così familiare il protagonista che avevo paura, terminandolo, di perdere un amico. In soli due giorni lo terminai comunque e la sensazione era proprio quella che avevo avuto all’inizio: stavo perdendo un amico.

Alberto Garlini, nato a Parma nel 1963, vive in Friuli, in provincia di Udine. Pubblica diversi libri già dal 2001, con diverse case editrici. L’ultimo suo titolo, “Il canto dell’Ippopotamo” è l’unico libro autobiografico. Parla di una parte della sua vita, quella che precede la nascita dello scrittore, quando lascia un lavoro sicuro in uno studio associato di avvocati, per iniziare un percorso in salita tra recensioni, concorsi di scrittura, poesie e ambienti che gli scrittori frequentano per farsi conoscere e conoscere chi conta nel settore. Ma l’incontro con il poeta friulano Pierluigi Cappello, la sua morte e la depressione che poi sopraggiunge, portano Garlini ad una vita nuova, fatta di dolore e di conoscenza della sofferenza. Tutto diventa relativo, anche un episodio di violenza che descrive nei dettagli nel libro stesso. E non c’è altra via che la scrittura per uscire da quel vortice che lo aveva appena inghiottito.

Una scrittura veloce per uno stile attento. Insomma, non si può non leggerlo.

Ecco che io leggevo il suo libro, la sua vita, e mi sentivo parte di quella vita, perché alcune cose mi accumunavano a lui. E grazie a lui, il “blocco del lettore” è magicamente sparito.

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