Preceduto da un battage pubblicitario degno di una merce di lusso («Dan Brown» è, infatti, oramai, un brand globale riconoscibilissimo e seguitissimo), il romanzo Inferno, nella sua duplice versione, cartacea e digitale, appena edito, è parso immediatamente condannato al successo planetario (di vendita e di lettura), balzando (per molte settimane) in vetta a tutte le classifiche, e suscitando, manco a dirlo, anche questa volta, una scia di polemiche, accompagnate da una buona dose di recensioni al vetriolo, tanto puntigliose e stroncatorie, quanto concordemente tese, da un lato, a dimostrare l’insulsaggine della storia, la pretestuosità del richiamo dantesco e la ripetitività dell’intreccio; dall’altro, a determinare e a incrementare (anche involontariamente) il suo successo commerciale.
Per parte nostra, confessiamo che dalla lettura di Inferno (Mondadori) non ci aspettavamo granché, o, comunque, nulla di nuovo, rispetto ai precedenti romanzi di Dan Brown, aventi a protagonista lo studioso di simbologia Robert Langdon. A onor del vero, dobbiamo però precisare che, dei precedenti tre romanzi langdoniani di Brown, abbiamo letto soltanto uno, Angeli e demoni: l’abbiamo letto, apprezzato in quanto ‘macchina narrativa’, e l’abbiamo tranquillamente dimenticato! Ecco, forse, è tutto qui il segreto della disposizione di lettura che, crediamo (e suggeriamo) si debba avere nei confronti della letteratura di genere (pregevolissima, per carità, ma ‘di genere’), qual è, per l’appunto, la letteratura di Dan Brown: leggere per dimenticare.
Partiamo, per questa nostra recensione (modesta proposta di lettura, rivolta a quei pochi che non hanno ancora letto Inferno di Dan Brown), partiamo – scrivevo – proprio dal concetto di ‘macchina narrativa’: ebbene, è indubbio che Dan Brown conosca alla perfezione gli strumenti della narrazione, e che, quindi, utilizzi magistralmente i ferri del (suo) mestiere! Il ritmo della storia è incalzante; la scrittura scorrevole; gli occhi e la voce del narratore capaci di svelare (e/o di velare) dettagli e particolari (anche minimi), con parole e con pause ben scelte, tali cioè da suscitare la curiosità e l’attesa del lettore. L’intricata trama prende il via sin dalla prima pagina del romanzo (dal Prologo), dalle primissime battute, e, di pagina in pagina, si complica, cresce, si ispessisce, torna indietro, spiazza, stupisce, sorprende, per la sola (e unica) ragione che ciascun ‘narratore’ deve porsi come obiettivo: catturare il lettore!
Riferimenti e allusioni a luoghi, personaggi e momenti dell’Inferno dantesco fanno capolino già nell’esergo, con l’allusione all’ignavia (che comparirà più volte nel libro, a metà, e verso la fine del romanzo, quasi a voler suggerire una ‘chiave’ di lettura di tutta la vicenda): «I luoghi più caldi dell’inferno sono riservati a coloro che in tempi di grande crisi morale si mantengono neutrali». Tale riferimento topografico infernale (a esser pignoli, così come è scritta la ‘sentenza’ rinvierebbe non a uno, ma a più luoghi dell’Inferno dantesco, e precisamente: al Vestibolo, o Antinferno, dove vengono puniti gli ignavi, che, com’è noto, in vita non seppero mai prendere una decisione, vivendo «sanza ‘nfamia e sanza lodo», If. III, 36 ; e al IX – e ultimo – cerchio dell’Inferno, dove vengono puniti i traditori, rispettivamente, suddivisi in ‘traditori dei parenti’ – Caina -, ‘della patria’ – Antenora -, ‘degli ospiti’ – Tolomea -, ‘dei benefattori’ – Giudecca -) non può non incuriosire (per carità, solo incuriosire, poiché, molto probabilmente, subito dopo, ne siamo convinti, lo deluderà) anche il lettore di cose dantesche più colto e esigente (non alludo, ovviamente, al fine esegeta, al critico smaliziato, al filologo raffinato, che, magari, immagino, sia stato fortemente tentato di riporre, inorridito, il volumaccio di Brown sullo scaffale della libreria, dopo aver dato soltanto una rapida, e pur esaustiva, scorsa esplorativa all’incipit; no, alludo, piuttosto, all’italico lettore colto, esigente, ma non snobisticamente prevenuto). Ma il gioco (piuttosto sterile) di rintracciare e di segnalare in un puntuale elenco i (pur tanti) riferimenti (espliciti e/o allusivi) all’opera dantesca, presenti nel romanzo di Brown, lo lasciamo (volentieri) ai suoi colti detrattori (come è già stato fatto, a onor del vero, sul blasonato inserto letterario de «il sole 24ore»); a noi, molto più banalmente, riserviamo, invece, la fatica di voler incuriosire i (nostri pochi) lettori, offrendo loro, speriamo, pure qualche ideuzza interpretativa.
Robert Langdon si sveglia in una stanza d’ospedale, a Firenze, lontano dalla sua università (Harvard), con una ferita alla testa, gli abiti ancora insanguinati, privo di memoria (ricorda a stento il proprio nome e la propria identità). Egli, infatti, non sa dove si trovi, e, soprattutto, non sa, non ricorda, perché si trovi lì. Comincia così il racconto del giorno più lungo (e ‘infernale’) che Robert Langdon sta per vivere a Firenze (e non solo nella città di Dante Alighieri, Vasari, Michelangelo, ecc.), braccato da misteriosi inseguitori, che (forse) vogliono ucciderlo, aiutato da una dottoressa, Sienna Brooks, che nasconde un passato inquieto, ossessionato da incubi e da visioni apocalittiche, che, sia pure in modo convulso e doloroso, però, pian piano, gli restituiscono brandelli di memoria, catturato nel vortice dei torbidi maneggi di un fantomatico «Consortium», oppositore, suo malgrado (o, forse, addirittura, inconsapevole pedina), di un movimento noto come “Transumanesimo”, e del suo ispiratore, il geniale quanto bizzarro (e luciferino) scienziato Bertand Zobrist, autore di una aberrante utopia eugenetica, nonché creatore del «virus Inferno».
A lettura completata, appare evidente che l’idea forte intorno alla quale ruota l’intreccio narrativo del romanzo è quella della (sempiterna) riflessione sul complicatissimo rapporto tra Bene e Male; meglio, riflessione sul difficile quanto labile, fragile e delicatissimo confine che, ogni giorno, si pone (e continuerà a porsi, finché il Sole risplenderà sulle sciagure umane) tra queste due polarità! Questioni eterne, scontate, dibattute, che, si potrebbe obiettare, sono così vaste da apparire (forse) anche banali, se non ingenue (all’interno di un’opera di fantasia), ma questo è il nocciolo della macchina narrativa del romanzo di Dan Brown, e da esso non si può (e non si deve) prescindere: il «virus Inferno», con la sua potenza devastatrice, può o no essere visto, per paradossale che possa sembrare la seguente affermazione, come lo strumento estremo cui ricorrere per salvare l’umanità intera, al netto delle (necessarie) ‘perdite’ che esso stesso provocherebbe? Detto in estrema sintesi (e rozzamente): il Male può portare al Bene? La questione rinvia, immancabilmente, alla (altrettanto delicatissima e sempiterna) discussione sulla libertà e sui limiti della ricerca scientifica e tecnologica, in rapporto alla morale e alla religione. Posta così come la stiamo formulando, ne siamo consapevoli, in termini cioè estremamente e brutalmente semplificati, l’interrogativo rischia di apparire per davvero banale (se non ridicolo e inverosimile). Per bocca della dottoressa Sienna (una volta che abbia deposto la ‘maschera’ di ambiguità, in quanto personaggio che fa la spola tra il Bene e il Male), verso la fine del romanzo, viene illustrata (e giustificata) l’azione del «virus Inferno» (creato dallo scienziato Bertrand Zobrist), evocando, per analogia (distruttiva e benefica), la Peste Nera medievale: «La Peste Nera sfoltì il gregge umano e preparò la strada al Rinascimento e Bertand ha concepito Inferno come un moderno catalizzatore di rinnovamento globale, una Peste Nera transumanista, con la differenza che coloro che manifesteranno la “malattia”, anziché morire, diventeranno semplicemente sterili» (p. 494).
La riflessione, dunque, si sposta sul versante etico della scelta e del fine ultimo. Non a caso, lo ripetiamo, il riferimento all’ignavia, nel romanzo, è ricorrente, e ha un valore non di mera citazione, bensì di ricerca e di indicazione complessiva di senso, che lo stesso autore (Dan Brown) si permette di suggerire al lettore, a ciascun lettore, della sua opera.
Com’è stato acutamente notato di recente da due studiosi statunitensi[1], il dramma della società contemporanea è il ‘nichilismo’, cioè la nostra (comoda e rinunciataria) tendenza a sottrarci alla ‘scelta’. Condizione esistenziale dell’uomo contemporaneo è, infatti, a giudizio di questi due studiosi, la prospettiva nichilista di sottrarsi al peso (e alle responsabilità) della scelta, in un’età (e in un mondo) senza Dio, e senza dèi: il «tormento della scelta […] in realtà è un prodotto della vita contemporanea. Non è solo perché in passato si sapeva bene su quale base compiere le proprie scelte fondamentali, il problema è che le domande esistenziali non avevano alcun senso»[2]. Certo, anche i due studiosi indicano nella ‘distanza’ il criterio guida: «Oggi non ci interessa più il mondo com’era un tempo. Le vite dei Greci all’epoca di Omero, intense e piene di significato, e la maestosa gerarchia che strutturava l’universo cristiano medievale di Dante sono radicalmente diverse dalla nostra epoca secolarizzata»[3].
Il testo di Dante, allora, cosa può ancora trasmettere al lettore (nichilista) di oggi? Cosa riesce ancora a trasmette anche al lettore del romanzo Inferno di Dan Brown, nel quale, cioè, un uomo, lo scienziato Bertrand Zobrist, dice di volersi caricare della responsabilità di effettuare una scelta per conto dell’umanità intera, e precisamente di volerla salvarla, attraverso la diffusione planetaria del virus «Inferno»? Segnatamente, il canto III dell’Inferno di Dante, con la (sprezzante) denuncia della ignavia, cosa ha da insegnare all’uomo contemporaneo, che, invece, a differenza di Bertrand Zobrist, si sottrae al fardello della scelta?
La Commedia dantesca poggia su una concezione tanto semplice quanto evidente: Dio ha creato l’universo a lui “somigliante” («[…]le cose tutte quante / hanno ordine tra loro, e questo è forma / che l’universo a Dio fa somigliante», Pd., I, 103-108). Nell’universo dantesco, infatti, Dio (creatore) è punto di convergenza di tutte le cose[4]. Gerarchia e ordine caratterizzano l’universo medievale dantesco; dunque, un mondo lontanissimo dal nostro, antinichilista per definizione[5]! Eppure, è proprio da questa distanza, tra quel mondo e il nostro, che noi, oggi, dobbiamo trarre, sul problema dell’ignavia contemporanea, dell’indifferenza, una lezione, un monito, un insegnamento. Sotto questo profilo di lettura, allora, la (folle, quanto geniale e luciferina) impresa di Bertrand Zobrist (di creare, prima, e di diffondere, poi) il «virus Inferno», non può non essere visto come un atto eroico!
Romanzo multilineare, romanzo aperto (con una fitta trama-rete di rinvii-link ad altri autori e ad altre opere), tali da moltiplicare il gioco della lettura, quasi all’infinito (tra letteratura, arte, musica,ecc.). Romanzo ricco pure di riferimenti e (di ironiche) allusioni a opere coeve (di successo), come, per esempio, alla (vendutissima) trilogia delle «Cinquanta sfumature …», di E. L. James (a p. 298, Dan Brown ironizza sul progetto letterario di scrivere «Cinquanta sfumature di iconografia», riferendo di una conversazione telefonica tra Robert Langdon e il suo agente-editor newyorkese).
Le parti critiche presenti nel romanzo, o, meglio, le pagine in cui Robert Langdon riferisce di sue conferenze sull’arte e sulla letteratura italiane, appaiono, a noi italiani, piuttosto ingenue (e, lo ammettiamo, Brown avrebbe anche potuto non inserirle, anche perché poco o nulla aggiungono allo sviluppo dell’intreccio romanzesco, ma molto, invece, offrono, a chi legge, sotto il profilo della promozione turistica dell’Italia); ebbene, esse vanno comunque lette nella prospettiva (scientifica) della tradizione di studio del mondo anglosassone (e americano) dei «cultural studies», e non dal di dentro della nostra accademia storico-filologica, che è, invece, in rapporto a quella, di gran lunga più esigente, raffinata e specialistica; faremmo del torto a entrambe le scuole, e cadremmo, nuovamente, nell’equivoco di ‘prendere troppo sul serio’ le opere di fantasia (e ‘di genere’) di Dan Brown.
Altro pregio (non trascurabile) del romanzo di Dan Brown è quello di funzionare come potente (e suggestivo) testo di promozione turistica, di Firenze (di Palazzo Vecchio, dei Giardini di Boboli, di via dei Calzaiuoli, ecc.), e, in generale, dell’Italia. Ci rendiamo perfettamente conto che in talune pagine l’Italia che fa capolino è “da cartolina”; chi legge, però, è un lettore planetario, non dimentichiamo questo dettaglio, non siamo in presenza di un romanzo italiano, destinato a una circolazione soltanto nostrana, provinciale; Inferno è un romanzo globale, destinato a un lettore globale, che non riesce a sottrarsi al fascino (alla suggestione) di vedere (o di ri-vedere) Palazzo Vecchio, o i Giardini di Boboli, reinventati da Dan Brown, attraverso i suoi occhi e quelli di Robert Langdon. Del resto, quante descrizioni d’Italia, o resoconti di viaggio, dei secoli scorsi, che noi, oggi, leggiamo e studiamo che ‘classici’, non sono altro che ‘vedute da cartolina’ dell’italico suolo? Ben venga, allora, anche sotto questo aspetto, il romanzo di Dan Brown.
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[1] H. Dreyfus e S.D. Kelly, Ogni cosa risplendea. I classici e il senso dell’esistenza, Torino, Einaudi, 2011.
[2] Ivi, p. 13. Come non inquadrare, ci permettiamo di aggiungere, all’interno di questo problematico universo (di rinuncia nichilista), la sorprendente (e drammatica) rinuncia al pontificato, pronunciata (tra lo sconcerto e la sorpresa mondiale) da papa Benedetto XVI l’11 febbraio 2013, se non proprio come (paradossale) cedimento al nichilismo (per altro, fieramente avversato da Joseph Ratzinger, in molti dei suoi scritti e interventi papali, non ultima la lettera enciclica Caritas in Veritate, e, prima ancora, da cardinale e fine teologo, qual è sempre stato, come il ‘male’ dell’età contemporanea)? Per il dibattito (già sorto e destinato a durare) intorno alle dimissioni papali, si vedano (almeno) i seguenti (primissimi) interventi: A. Chiara, R. Parmeggiani, L. Pitoni, F. Albani, A. Indolenti e F. Gaeta, (a c. di), Benedetto XVI. Una scelta profetica, «I Grandi Speciali di Famiglia Cristiana», allegato al n. del 19 febbraio 2013; R. Rusconi, Il gran rifiuto. Perché un papa si dimette, Brescia, Morcelliana, 2013; AA.VV., La scelta di Benedetto. Indagine sulla grande rinuncia, I libri del «Corriere della sera», con introduzione di F. de Bortoli, Milano, 2013.
[3] H. Dreyfus, S. Kelly, op. cit., p. XIII.
[4] Si veda su questo il saggio di Francesco Tateo, L’ordine delle cose: analogie gerarchiche nell’universo dantesco, in Miscellanea di Studi Danteschi in memoria di Silvio Pasquazi, Napoli, Federico e Ardia, 1993, pp. 837-850.
[5] Già ne Il fu Mattia Pascal, di Luigi Pirandello (pubblicato a puntate nel 1904, dapprima, sulla rivista «Nuova Antologia», e poi in volume), è percepita (e razionalizzata) la perdita di ‘gerarchia’ (di ordine) del nostro mondo moderno e delle relative certezze. Anselmo Paleari, ospite romano di Adriano Meis (Mattia Pascal) esprimerà, attraverso la metafora dello «strappo nel cielo di carta» delle marionette, la rivoluzione copernicana avvenuta nel mondo moderno: «Beate le marionette […] su le cui teste di legno il finto cielo si conserva senza strappi!» (L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, cap. XII), con la conseguente perdita, per tutti noi che ‘marionette’ non siamo, di ‘ordine universale’.