Italo Calvino e il gioco delle narrazioni incrociate

“Credo che la mia prima spinta venga da una mia ipersensibilità o allergia: mi sembra che il linguaggio venga sempre usato in modo approssimativo, casuale, sbagliato, e ne provo un fastidio intollerabile. Non si creda che questa mia reazione corrisponda a un’intolleranza per il prossimo: il fastidio peggiore lo provo sentendo parlare me stesso. Per questo cerco di parlare il meno possibile, e se preferisco scrivere è perché scrivendo posso correggere ogni frase tante volte quanto è necessario per arrivare non dico a essere soddisfatto delle mie parole, ma almeno a eliminare le ragioni d’insoddisfazione di cui posso rendermi conto” (Calvino, 2008, p. 57). 

Abbiamo deciso di aprire con questo passo delle Lezioni americane per chiarire sul nascere le modalità con le quali questa nuova serie di saggi letterari verrà condotta: in un momento storico nel quale fare editoria è divenuto – ahinoi! – di moda, una moda che non riguarda la sola fantasia di dirsi scrittori, ma anche quella di dirsi editori, quel che ci occorreva era un volume che potesse manifestare i nostri intenti in modo quanto più possibile esplicito. Ecco perché il primo titolo che vi proponiamo è questo bel Calvino editore di Angela De Simone.

E basterebbe forse un’immagine a dare un’idea del lavoro certosino di Italo Calvino sui testi, unitamente alla sua volontà di fare di una casa editrice una palestra per i collaboratori più giovani. Come ricorda la consulente editoriale Silvia Frattini: «Guido Davico Bonino cominciò a fare quarte di copertina per Einaudi quando in via Biancamano c’era Italo Calvino, che gli fece riscrivere quattordici volte quella di un libro della Duras perché troppo elogiativa» (2012, p. 36).

Un impegno editoriale, dunque, quello del Nostro, che esula dalla mera ambizione personale di entrare a far parte di un pantheon di intellettuali e imprenditori, poiché animato da un sincero amore per le parole, i libri, i lettori, come il sottotitolo del presente volume si affretta ad acclarare.

Ma non solo di storia editoriale si tratta. Al di là della precisa – e doverosa – ricostruzione cronologica che Angela De Simone propone, tra i punti affrontati v’è anche quello del “lettore nel testo”: molti personaggi del Calvino autore e narratore, è vero, sono lettori; ma nei suoi racconti e romanzi non mancano neanche confidenze tra narratore e narratario, ossia il cosiddetto “lettore esplicito”, il lettore al quale ci si rivolge e che compare in un certo qual modo all’interno dell’opera stessa.

Perché è importante recuperare questi aspetti della narrazione? Lo è perché consente di far luce sulle possibilità della scrittura e della lettura, ricordandoci che l’atto di leggere non deve essere necessariamente ridotto a un gesto passivo, in quanto il lettore può essere chiamato a partecipare attivamente al gioco interpretativo. 

Una volta si parlava, e a ragione, di lettori sensibili laddove oggi si parla di lettori forti; ma “forte” è un aggettivo muscolare che dispiace, e che rimanda più alla quantità di pagine lette – o meglio, visionate: dacché leggere è qualcosa che bisogna imparare a fare e che non corrisponde al mero “guardare” – che non all’intensità del rapporto col testo scritto.

È una questione cruciale, che merita di essere affrontata più da vicino.

In un saggio del 1967 dal titolo Cibernetica e fantasmi (Appunti sulla narrativa come processo combinatorio), Italo Calvino si occupa del rapporto tra la matematica e la letteratura, stabilendo che a pari livello di civiltà, così come le operazioni aritmetiche, anche le operazioni narrative non possono essere diverse presso un popolo o un altro: ma quello che sulla base di questi procedimenti elementari viene costruito può presentare combinazioni, permutazioni e trasformazioni illimitate (Calvino, 1980, p. 166).

Se davvero – come già aveva scoperto Propp per le fiabe – l’invenzione narrativa è riconducibile a un numero finito di variabili, allora sarebbe possibile avere una macchina elettronica capace di elaborare dei romanzi e dei racconti senza il contributo creativo dello scrittore. Calvino non mostra nessuna angoscia di fronte all’idea della scomparsa dell’autore: è però interessato ad affermare sempre e comunque l’importanza dell’esperienza letteraria, e la individua nel rapporto che si instaura tra il testo scritto e il lettore: 

“Smontato e rimontato il processo della composizione letteraria, il momento decisivo della vita letteraria sarà la lettura [corsivo mio]. In questo senso, anche affidata alla macchina, la letteratura continuerà a essere un luogo privilegiato della coscienza umana, un’esplicitazione delle potenzialità contenute nel sistema di segni d’ogni società e d’ogni epoca: l’opera continuerà a nascere, a essere giudicata, a essere distrutta o continuamente rinnovata al contatto dell’occhio che legge: ciò che sparirà sarà la figura dell’autore […] per lasciare il suo posto a un uomo più cosciente, che saprà che l’autore è una macchina e saprà come questa macchina funziona” (pp. 172-173).

L’interesse di Calvino si concentra quindi sulla possibilità di giocare con la letteratura, di inventare storie che sappiano rendere l’interpretazione del lettore una componente essenziale dell’opera stessa. 

Questa ricerca è evidente anche nel romanzo Il castello dei destini incrociati, che nell’edizione del 1973 comprende, oltre al testo omonimo già pubblicato quattro anni prima, anche La taverna dei destini incrociati.

Questo secondo romanzo si basa, anziché sui tarocchi viscontei del XV secolo, sulle carte marsigliesi del Settecento. In entrambi i casi Calvino racconta delle storie partendo dalle immagini riprodotte nel mazzo: un io narrante rievoca l’incontro di alcuni commensali che, scoprendosi muti, si servono delle figure per raccontare la propria storia. Associando un significato a ogni disegno è infatti possibile realizzare delle file di carte che nel loro insieme formano un racconto. Calvino afferma di aver tenuto presente «l’idea che il significato di ogni singola carta dipende dal posto che essa ha nella successione di carte che la precedono e la seguono» (Calvino, 2002, pp. VI-VII). L’opera cerca quindi di accostare il linguaggio della letteratura e quello pittorico «secondo un’iconologia immaginaria» (p. VII). 

I commensali ricorrono alle sequenze di immagini perché non sono più in grado di parlare, e così affrontano il loro insopprimibile bisogno di comunicare ricorrendo a un codice diverso da quello consueto. A ogni carta possono però essere associati molti significati diversi e, non potendo parlare, ogni commensale deve basarsi su congetture non verificabili. 

L’interpretazione delle storie resta quindi arbitraria ma è proprio questa polisemia del testo scritto a interessare Calvino, che già nel 1967, nella nota Per chi si scrive?, aveva posto l’accento sull’importanza del lettore: «Lo scrittore parla a un lettore che ne sa più di lui, si finge un se stesso che ne sa di più di quel che lui sa, per parlare a qualcuno che ne sa di più ancora» (Calvino, 1980, p. 162).

La letteratura combinatoria intesa come riflessione sul rapporto tra scrittore e destinatari implica allora anche un impegno ideologico: 

“Politicamente rivoluzionaria non è tanto l’opera, quanto l’uso che se ne può fare; anche l’opera che si vuol far nascere politicamente rivoluzionaria non diventa tale che nel corso del suo impiego, nei suoi effetti spesso ritardati e indiretti” (p. 163).

Come spiega Cristina Benussi (1996, p. 122) prendendo a modello Il castello dei destini incrociati, Calvino si prescrive una regola rigida di racconto: le carte dovevano essere disposte in un quadrato leggibile da sinistra a destra, dall’alto in basso e viceversa, tenendo conto che le stesse figure presentandosi in un ordine diverso cambiano significato.

Al centro del quadrato di carte c’è la storia di Orlando, della sua follia. E se prendiamo in esame questo particolare romanzo, è perché la vicenda dell’eroe si fa simbolo dell’esperienza letteraria: perdendo la ragione per amore di Angelica, Orlando, come spiega l’io narrante del libro, «era disceso giù nel cuore caotico delle cose, al centro del quadrato dei tarocchi e del mondo, al punto d’intersezione di tutti gli ordini possibili» (Calvino, 2002, cit., p. 33).

La storia di Orlando assume così un’importanza centrale, poiché il principio di razionalità che organizza la materia narrativa e la forza della fantasia creatrice si pongono a confronto, come conferma la carta della Giustizia utilizzata di lì a poco: «Era la Ragione del racconto che cova sotto il Caso combinatorio dei tarocchi sparpagliati?» (ibid.). La risposta di Calvino è nella carta dell’Appeso, l’ultima di Orlando che, finalmente, è “diventato sereno e luminoso, l’occhio limpido come neppure nell’esercizio delle sue ragioni passate e afferma: Lasciatemi così. Ho fatto tutto il giro e ho capito. Il mondo si legge all’incontrario. Tutto è chiaro” (p. 34).

Per comprendere razionalmente il reale bisogna quindi confrontarsi con la sua parte più caotica: solo dopo aver colto la sua complessità multiforme è possibile cercare di interpretare (e magari modificare) la realtà. È quanto si legge tra le righe del saggio di Angela De Simone, allorquando si accenna, pur con garbo, in punta di piedi e senza sbilanciamenti, al legame tra attività editoriale e impegno civile e “politico” di Calvino.

La dimensione razionale dell’esperienza letteraria, così come quella dell’esperienza quotidiana, viene non a caso confutata dalla storia di Astolfo e del suo viaggio sulla Luna: la Luna su cui Astolfo va a cercare il senno di Orlando è infatti descritta dal tarocco della Ruota della Fortuna, a indicare un mondo in cui tutto è rovesciato rispetto al nostro pianeta, dove «l’asino è re, l’uomo è quadrupede […] e quanti altri paradossi l’immaginazione può scomporre e ricomporre» (p. 38).

In mezzo a questo regno del caos, Astolfo incontra un poeta (indicato dalla carta del Bagatto), e a lui che «abita nel bel mezzo della Luna, – o ne è abitato, come dal suo nucleo più profondo» chiede se essa è davvero «il mondo pieno di senso, l’opposto della Terra insensata» (ibid.). La risposta del poeta è raggelante: «No, la Luna è un deserto […] e ogni viaggio attraverso foreste, battaglie, tesori, banchetti, alcove, ci riporta qui, al centro d’un orizzonte vuoto» (pp. 38-39). 

Lo scacco della ragione viene confermato dall’io narrante che, confuso in mezzo a un insieme di storie diverse, non riesce più a riconoscere la sua: 

Certamente anche la mia storia è contenuta in questo intreccio di carte, passato presente futuro, ma io non so più distinguerla dalle altre. La foresta, il castello, i tarocchi m’hanno portato a questo traguardo: a perdere la mia storia, a confonderla nel pulviscolo delle storie, a liberarmene. Quello che rimane di me è solo l’ostinazione manica a completare, a chiudere, a far tornare i conti (p. 45). 

Ed è questo un passaggio che potremmo quasi prendere alla lettera, laddove la poetica di Calvino tende a intrecciarsi – e, perché no, a incrociarsi – spesso e volentieri con quella delle storie degli altri, dei numerosi autori da lui curati nel corso dei tanti anni di lavoro editoriale.

Raccontare delle storie può, quindi, aiutare a conoscere meglio la realtà anche non sempre a comprenderla fino in fondo. L’esperienza letteraria si configura infatti come un ciclo analogo al mescolarsi delle carte, in un gioco di associazioni e di racconti che parte sempre dagli stessi presupposti – le stesse carte con gli stessi simboli, le stesse strutture narrative – ma che dà luogo a esiti diversi a seconda della reazione dei destinatari. 

È sulla base di questa novità potenziale, affidata all’interazione dei lettori, che Calvino fa riferimento a storie che in molti casi sono già state raccontate: oltre a quella di Orlando, compaiono infatti anche la storia di Elena di Troia e il mito di Faust, che verrà ripreso nella Taverna. E come potevano chiudersi i racconti del Castello se non con il più emblematico dei gesti? A compierlo sarà la padrona di casa, che non potrà far altro che finire col ribadire la ciclicità della narrazione: 

“Eccola ora apparecchiare una tavola per due, attendere il ritorno dello sposo, e spiare ogni muovere di fronda in questo bosco, ogni tirar di carte in questo mazzo di tarocchi, ogni colpo di scena in questo incastro di racconti, finché non si arriva alla fine del gioco. Allora le sue mani sparpagliano le carte, mescolano il mazzo, ricominciano da capo” (p. 48).

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