La voce amica di Cosimo Argentina

Leggere tutti i libri che sono stati scritti in tutti i secoli, in tutte le latitudini terrestri, in tutte le lingue e dialetti… non è difficile ma proprio impossibile. Ci sono, però, dei testi e degli autori imprescindibili che fanno la differenza, parole che tirano fuori dal nostro marmo un’anima che neppure sospettavamo. “Cuore di cuoio”, “Beata ignoranza”, “Vicolo dell’acciaio”,”L’umano sistema fognario”. “Le tre resurrezioni di Sisifo re”, “Legno verde”, alcuni dei titoli, ma ovunque si posi lo sguardo, si è certi di pesca buona.

Cosimo Argentina ha seminato brandelli della sua carne in tutte le sue storie. Talvolta si ha l’impressione di leggere un pezzo della sua autobiografia, una specie di reportage narrativo. Ma in quale delle tue storie ti trovi veramente e quale dei tuoi personaggi ti assomiglia di più e perché?

Non ce n’è una in particolare. Uno scrittore mistifica, mescola, nasconde, rivela, riarrangia, degenera, decuplica, lima, impasta. Ma non c’è un solo punto di un solo romanzo dove uno possa dire ecco, è lui. C’è sempre una deformante visione delle cose. Questo è il bello dello scrivere. Prendere a modello la vita e cambiare parametri, scenari, caratteristiche, circostanze. Prendi un uomo serio in giacca e cravatta e lo sistemi su una giostra impazzita. Uno si chiede: è proprio così oppure… è il piacere di inventare su cose reali e rendere reali ambiti inventati.

Hai scritto romanzi, racconti, versi poetici… leggeremo, prima o poi, la tua autobiografia?

C’è un romanzo a cui lavoro da tempo. Ogni tanto lo mollo e poi lo riprendo. Sono i miei oltre diecimila giorni da precario. Ma se poi rileggo quello che ho scritto e che pensavo fosse una sorta di autobiografia mi rendo conto che invece c’è sempre un mix di vero e bugiardo. Quindi temo di no. E poi le autobiografie sono noiose, sono più interessanti e magari pruriginose le biografie. Sicché forse un giorno la scriverai tu, la mia biografia.

Le tue storie non scorrono come un film ma implodono, trascinandosi dentro il lettore, con durezza colpiscono facendogli venire fuori pensieri ed emozioni. Questo significa essere un narratore?

Però scorrono anche. Sono fiumi, anche se in realtà hanno implosioni, esplosioni, contorsioni, retromarce, impennate, accelerate, frenate. Essere un narratore credo significhi darsi totalmente alla scrittura e alla storia che si scrive. Non c’è altro, se non il talento. Non bisognerebbe nemmeno pensare alla pubblicazione perché quello rischia di castrare la tua fantasia e la tua libertà creativa. Essere un narratore è prendere dei rischi. Sputtanarsi e al tempo stesso difendersi da un mondo che non si sopporta. Salire su una barca dopo aver lasciato a casa carte nautiche e bussola. Spaccare l’aria in cento pezzi. Voltare le spalle a tutto consapevole che anche la penna è effimera, ma sa essere anche antalgica e protettiva. Cavalcare la tigre.

Quando uno è sott’acqua guarda in alto e cerca un appiglio per uscire, invece, tu guardi intorno, ti fermi con quelli che affogano… verità batte felicità 1 a 0?

Verità e felicità non esistono. Esiste l’ingiustizia. Esiste la sfortuna. Esistono degli istanti in cui le cose vanno bene e gli istanti in cui tutto è maledettamente complicato e va tutto in malora. Ciò che è vero per te non lo è per me, ad esempio. È come per la bellezza. Due guardano una ragazza e per uno dei due è bella come una dea e per l’altro è inguardabile. Due donne notano un uomo e la prima dice ehi, com’è sexy quel tipo e l’altra risponde, ma se è uno scorfano. Io guardo quelli messi male perché di loro è fatto il regno dei cieli, spero. Mentre gli sfruttatori mi auguro che possano friggere all’inferno e che se li porti il diavolo in persona. Almeno la giustizia divina o qualcosa del genere ci vorrebbe dopo tanto marciume. Vorrei vedere gli sciacalli morti e l’indifeso omaggiato. Sogno un mondo alla rovescia dove gli astuti e scaltri possano marinare nel piscio e gli sfigati educati e rispettosi possano avere successo e tenere per gli attributi la terra e il Vahalla.

Più volte hai dichiarato di leggere Philip Dick e alla fantascienza ti sei avvicinato anche con la tua “Trilogia della torre”, secondo te, qual è la differenza fra realtà e verità? E, nelle tue storie,  che ruolo giocano fantasia e vero-simile?

Dick metteva tutto in dubbio. Chi siamo noi? Siamo quello che sembra che siamo? Il mondo reale è davvero quello che vediamo coi nostri sensi limitati? Tu sei una persona che vive a Taranto e io a Meda o siamo la proiezione mentale di una creatura che vive su Orione? Io sono quello che paga il mutuo? Cosa significa mutuo? I sogni notturni sono cazzate perché sto dormendo oppure sono la realtà e quando credo di essere sveglio in realtà sto dormendo e sognando? Sono uno che scrive oppure ho in memoria di quando scrivevo romanzi? Falsi ricordi? Ricordi veri? Siamo sulla terra oppure siamo solo un album di ricordi tridimensionali di un pianeta che una volta esisteva? Noi vediamo le stelle che però sono morte, giusto? E allora?

Dal tuo primo romanzo sono passati 21 anni e 16 altri libri, a distanza di tempo li hai riletti, i  loro fantasmi ti vengono ancora a cercare a casa?

No, non li rileggo mai tranne il cadetto perché ho dovuto, voluto riscriverlo. Non ha senso. Non li troverei interessanti bensì pieni di errori e ingenuità. Mai rileggere le proprie cose, almeno per me è così. I fantasmi sì, quelli rimangono e, anzi, ai vecchi si sono sommati i nuovi e quelli nuovi sono terribili, mostri a tre teste, maligni, dissoluti, inquietanti e non so nemmeno se val la pena raccontarli. Troppo intimi.

Lucia Pulpo

 

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