«Quando nella primavera del 1996» racconta Angelo Pellegrino nella Prefazione «balenò la possibilità di pubblicare per intero il suo libro, Goliarda, accingendosi a rivedere L’arte della gioia dopo vent’anni da quando l’aveva portato a termine, pose davanti a sé una sorta di cartello con le seguenti parole: “Sono passati trent’anni dal primo appunto su Modesta. Attenta, Goliarda, a non cadere nel tranello dell’autocensura”. Temeva che due decenni di rifiuti editoriali, e tre di convivenza con la protagonista del suo romanzo, potessero averle intaccato la forza dell’idea originaria, e di scivolare nel peccato di autocensura, la caduta più grave per una scrittrice come lei. Temeva la vergogna del tradimento più stolto, quello della propria storia».
Oggi, Goliarda, a pochi mesi dagli anni Venti del XXI secolo, ancora la tua Modesta darebbe scandalo, se solo ricevesse la giusta attenzione che il tuo valore reclama. Nessuna autocensura, nessun tradimento: la tua Modesta, nata all’alba di un nuovo secolo, al nuovo secolo dona l’ombra ristoratrice di una femmina viva e vibrante nella calura opprimente del patriarcato nella provincia siciliana di inizio Novecento.
Ed è bello vederla crescere, piccola ma tosta carusa che si distingue, nel contesto di povertà e grettezza in cui sboccia, per una spiccata tensione verso l’apprendimento: quello dei sensi, quello dell’intelletto, quello di ogni esperienza che possa farla accedere a un livello superiore di consapevolezza. Sarebbe quasi azzardato parlare di temperamento “ribelle”: la libertà in lei non è un mero pretesto per scandalizzare, è piuttosto un fatto naturale come l’avvicendarsi del giorno e della notte. Modesta «succhia tutto il midollo della vita», pretende, ruba, impara, chiede a gran voce e, nel mentre, sulle ceneri di un’infanzia atipica e passando per un’esperienza in convento, riesce con la sola scaltrezza a elevare la propria posizione sociale fino a raggiungere la tranquillità necessaria a dedicarsi allo studio della vita.
Ecco come tornava il passato… non con gli stessi personaggi, come nei romanzi, ma con altri nuovi che ci portano il ricordo di paure non cancellate. E questo era molto pericoloso. Non dovevo cercare […] di dimenticare il passato, ma anzi ricordarlo sempre tutto, così da tenerlo sotto controllo e farmene una forza contro i nuovi incontri che sicuramente mi aspettavano al varco. […] Ecco la strada giusta: bisognava, così come si studia la grammatica, la musica, studiare le emozioni che gli altri suscitano in noi.
È bello vederla invecchiare mentre impara a conoscere donne forti, ammirandole senza assoggettarsi; donne fragili, amandole senza imporsi; uomini sanguigni e fini intellettuali, contadine troppo povere per avere il tempo di essere buone e pugnaci attiviste politiche, seguaci di Freud e antifascisti rivoluzionari. Ricco e variegato è il suo percorso mentre si impossessa dell’arte di chiunque divida con lei un pezzo di strada, arte della mente o arte del corpo, tramutandola in occasione di gioia e raggiungendo livelli di libertà impensabili per molte sedicenti femministe odierne.
In un lampo capii che cosa era quello che chiamiamo destino: una volontà inconsapevole di continuare quella che per anni ci hanno insinuato, imposto, ripetuto essere la sola giusta strada da seguire.
No, non c’è destino ma solo una ferrea volontà, una vitalità appassionata trasmessa appieno da una scrittura potente, che travolge per la sua poeticità e per lo spirito presente in ogni dialogo, ogni riflessione, ogni gesto e ogni scelta della protagonista. E quel fluire continuo dalla prima alla terza persona, dal presente al passato, non solo non confonde ma rafforza l’idea dell’analisi a cui Modesta sottopone il mondo e se stessa, che pare quasi allontanarsi per guardare il tutto dalla giusta distanza. Per mettere e mettersi in dubbio, perché «mentono le parole, appena hai detto la parola questa ti ricade addosso come il coperchio di una bara». Per affrontare la paura e i lati sgradevoli della vita, perché «non conoscendoli la realtà li ingigantisce nella fantasia trasformandoli in incubi incontrollabili». Per essere sincera con furia, perché «le cose non dette marciscono dentro di noi».
Gli occhi grandi di Modesta ti inchiodano a una consapevolezza: viviamo, tutti, in un coacervo di bugie. Bugie nascoste nelle consuetudini, nelle impalcature sociali, nelle sovrastrutture mentali, nelle parole stesse. L’unica speranza è nella lotta, nello stare all’opposizione sempre. E nell’imparare l’arte della gioia, la gioia della rivoluzione.
«Pare che quando Goliarda Sapienza» racconta Domenico Scarpa nella Postfazione «negli ultimi suoi anni teneva lezioni di recitazione facesse proprio così: che buttasse via i copioni, i saggi di bravura preparati dagli allievi, e li trascinasse a due mani al centro del palco, in mezzo a un cerchio di persone sedute, provocandoli con tutta la sua gioia e rabbia a tirare fuori la vera voce che tenevano nascosta. Gridava, e faceva in modo che quegli attori giovani le facessero eco – ma scoprissero la propria voce. Il lettore dell’Arte della gioia frequenta quella stessa scuola, e se ne esce scombussolato e felice con la testa che gli gira».