Mongoloide, ebreo, handicappato…

Mezzo mese fa avevo invitato i lettori seriali di libri, giornali ecc. a rallentare la velocità e a pesare le parole maggiormente, perché esse hanno oltre il loro significato letterario, anche una sfuggente e misteriosa profondità filosofica.

Ma il consiglio era incompleto; le parole non solo si vedono con gli occhi, si ascoltano anche con le orecchie e bisognerebbe fare molta attenzione a quel che si sente o, meglio, si dice ad alta voce, con una notevole superficialità.

Insomma, senza farvi perder tempo vi racconto i fatti.

Esco da casa la mattina presto, spinto dal solito desiderio ascetico e percorrendo i due isolati di Bari che mi dividono dalla macchina del caffè espresso, incrocio una ragazzina scolarizzata che scandisce a voce alta “Ma sei mongoloide?”

Capisco che non si sta rivolgendo a me (per sua fortuna!), intuisco che ha un microfono sotto la sciarpa con il quale sta polemizzando con il moroso e, mediante l’interrogazione retorica, gli ha finito di ricordare che è rincretinito.

Mi affido al pensiero pensiero critico: che c’entra un lontano popolo di origine asiatica o, peggio, che colpe hanno gli individui affetti dalla sindrome di Down, che sono peraltro di una tenerezza e di simpatia travolgenti?

Riparto in direzione del bar senza aver trovato una risposta decente. Finita l’ormai inutile lettura del quotidiano locale, recupero la strada, ma si fa avanti un capo della tifoseria locale, il quale conoscendo la mia passione per il calcio e volendo prendermi in giro, mi dice che sono un “ebreo interista”, più accettabile di quegli altri ebrei che tifano Lecce.

Capisco che ‘ebreo’ è diventato sinonimo di nemico, di ciò che si odia a priori e che non merita rispetto umano.

Spinto dalla voglia di riflettere su questi corto-circuiti semantici, mi affretto a raggiungere il tavolo di lavoro per sfibrare il vocabolario che mi fa compagnia quando le viscere si chiudono. Purtroppo non faccio in tempo a isolarmi.

A casa sono entrati due operai che fanno la manutenzione alla caldaia. Il vecchio sta insegnando al giovane apprendista come fare a ripulirla e, vedendo che sta sbagliando, gli scrolla addosso, un “Handicappato!”

Cioè, per rimproverarlo, lo accusa di essere un disabile, un minorato fisico o mentale…

Basta! non ne posso più. Luca Serianni ha appena pubblicato un’altra meravigliosa storia della lingua italiana, ma credo che dovrebbe scrivere la storia dell’italiano che fa schifo e non ce ne accorgiamo.

Vi svelo un dato sensibile. Da molti anni ho solamente un rene, l’altro me lo hanno tolto per salvarmi la vita. Un’amica affettuosa mi chiama “Moni Renis” e il suo calembour lo trovo divertente, anche se riecheggia una disgrazia che non auguro a nessuno. Voglio dire che le parole si possono usare con ironia, ma per me è giusto sanzionare pesantemente gli asini che le riempiono di ira. Sì! Pretendo i vigili urbani del linguaggio che possano elevare multe salatissime a chi sbaglia a parlare, come si fa per le deiezioni dei cani o se si butta l’immondizia fuori orario.

Ho finito. Mi ha chiamato l’editore per impaginare questo numero del magazine. È pomeriggio, non c’è nessuno in giro e quindi presumo che farà una lunga, piacevole passeggiata silenziosa. Macché! Un’auto salta la sua corsia e quasi travolge un vecchio in bicicletta, il quale si spaventa e rivolgendosi al suo persecutore, gli grida minacciosamente: “Uè, esaurito!” Orbene, il ciclista aveva ragione, era legittimo ribellarsi contro un idiota pirata della strada, ma perché lo ha paragonato a un essere umano colpito da esaurimento nervoso? C’è un letterato creativo che si impegna a scrivere un nuovo glossario degli insulti, senza mettere in mezzo gli innocenti?

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