Pietre Vive

La Puglia, nonostante la crisi atavica, sta vivendo un importante fermento culturale che si manifesta anche nel settore editoriale dove stanno nascendo realtà molto interessanti e capaci di offrire al pubblico dei lettori un modo nuovo e vivace di proporre i libri. Particolarmente interessante è il percorso di Pietre Vive, piccola casa editrice guidata da Vitantonio Lillo, la cui peculiarità è quella di essere una delle poche case editrici a puntare in maniera decisa sulla poesia, la cenerentola della letteratura.

Quando è nata Pietre Vive?

Pietre Vive, proprio come il Verbo, esisteva già molto tempo prima che ci arrivassi io. È nata come associazione di stampo politico nel 2002. Nel 2006 ha cominciato a produrre un mensile di informazione comprensoriale, Largo Bellavista, in cui ho cominciato a scrivere nel 2007 con una mia rubrica satirica. A un certo punto ne sono diventato il direttore responsabile e poi, nel 2013, quando il mensile per vari motivi ha chiuso i battenti, io e un’altra persona, Roberto Lacarbonara, l’abbiamo trasformata in una casa editrice vera e propria. Lacarbonara ha impostato la linea grafica di Pietre Vive, io quella editoriale.

Qual è la linea editoriale?

Beh, io sono il padre-padrone della baracca per cui ovviamente si pubblica quello che piace a me. Scherzi a parte, scrivendo io stesso poesie, per la maggior parte si predilige quel genere. Credo anzi che siamo, in Puglia e forse nel Sud, fra le poche case editrici specializzate. Prima di fare editoria ci occupavamo, con Lacarbonara e con Luca Gianfrate che mi dà una mano, anche di un altro progetto, Entropie, legato alla realizzazione di mostre d’arte, campo in cui Lacarbonara ha proseguito. Perciò, rispetto ad altri editori, abbiamo contatti con artisti, tutti giovani e di grandissimo talento, con cui collaboriamo per la realizzazione di libri particolarmente raffinati dal punto di vista grafico. A parte quella di poesia, abbiamo anche una collana di prosa, per lo più indirizzata a racconti e a qualcosa di saggistica. Non pubblichiamo romanzi.

Come può una piccola casa editrice, indipendente e non a pagamento, ritagliarsi una fetta di mercato? Per giunta pubblicando poesia?

La poesia, si sa, è un genere di nicchia: significa però che c’è una nicchia, ristretta ma presente, di amanti del genere. Quello dei lettori di poesia è un numero finito, non sempre attento alle novità, e c’è da spintonare parecchio per catturarne l’attenzione. Ma l’importante, secondo me, è lavorare senza fretta sulla qualità del proprio prodotto, magari fare un libro in meno ma sempre al meglio che si può, e lavorare sulla lunga distanza, puntando a fare ogni giorno pochi passi in avanti. Poi vabbe’, si deve stringere la cinghia e non ci si può permettere di fare troppe follie, lo sappiamo. Ma, ti dico, quando ho cominciato tutti mi ridevano dietro e mi dicevano che non sarei arrivato da nessuna parte. A cinque anni di distanza non ho debiti, non ho mai truffato nessuno con contratti assurdi e ho conquistato, credo, quel minimo di dignità editoriale per cui posso andare in giro a testa alta.

A quale dei tuoi libri sei più legato e quale consiglieresti ai nostri lettori?

Il libro che più amo, fra quelli da noi pubblicati (e con tutto l’affetto che provo per gli altri), è “L’adatto vocabolario di ogni specie” di Alessandro Silva, un libro difficile e per nulla ottimistico sul destino di un operaio dell’Ilva, che secondo me, fra molti anni, quando Silva avrà costruito una sua carriera poetica, verrà ricordato come un esordio folgorante a cui sono contento, per quello che potevo, di aver contribuito. Mentre, dovendo consigliare un libro col quale approcciarsi alla nostra casa editrice, io proporrei “Topografia della solitudine”, che è un audiolibro ed è frutto di un nostro progetto, B.digital, per la creazione di libri digitali e in particolare di audiolibri di poesia. È il tentativo di offrire un diverso approccio al genere, sperimentando nuove tipologie di fruizione. “Topografia della solitudine”, scritto da Sergio Pasquandrea, è la storia in versi di un poeta che attua una sua personalissima fuga verso New York, gode della partecipazione del grandissimo David Riondino in qualità di lettore, mentre le musiche sono di Michele Marzulli.

Ci sono degli editori a cui ti ispiri?

Il Ponte del Sale, Luca Sossella, Pulcinoelefante, ovviamente Adelphi.

Perché secondo te in Puglia si legge poco e quali pensi possano essere dei modi per incrementare la lettura?

Credo sinceramente che questa disaffezione per la lettura sia il risultato di decenni di cattive politiche e di scarsi investimenti sulla Scuola, che ormai sta diventando un parcheggio per futura manovalanza sottopagata. Benché la nostra classe politica – per lo più composta da illetterati o peggio ancora da analfabeti che si fanno vanto di essere espressione del Paese – lo ribadisca a vuoto nei propri programmi, io da lì ripartirei. Dalla Scuola e dalle biblioteche, che quando funzionano davvero, vedi quelle di Noci o di Monopoli, sono un centro aggregativo, oltre che culturale, potentissimo. Certo, a me fa sempre strano che in una regione economicamente ricca come la Puglia si investa così poco nelle attività culturali non legate alla musica (perché per fare musica e ballare i soldi si trovano sempre), ma del resto “ricchezza”, a “saggezza”, ha sempre preferito la rima in “leggerezza”. C’è stato, a onor del vero, un periodo di grande luminosità e fervore culturale in Puglia, forse troppo breve per incidere sul serio, che aveva nome e cognome: Guglielmo Minervini. Io l’ho vissuto quel periodo, ne sono testimone, e mi sento fortunato perché mi dà la certezza che quelle che dico non sono farneticazioni, ma fatti.

In un mondo sempre più caotico c’è ancora spazio per la poesia?

Spazio non lo so, perché quello o te lo prendi tu o te lo concedono gli altri, e in ogni caso c’è da lottare o da chiedere permesso. Mi pare che in poesia, oggi, manchi un po’ l’anelito alla lotta e si chiedano un po’ troppi permessi. Bisogno di poesia ce n’è sempre, però. Anzi, si dice che oggi troppi scrivono poesie, io stesso ne ricevo a centinaia come proposte editoriali. Ma per me non è una cosa negativa. Se uno le scrive è perché ne ha bisogno, perché la poesia, prima di essere o meno arte, è linguaggio ed è uno dei modi più facili, più economici, per esprimere i propri sentimenti. In questo sta la sua potenza, secondo me. Poi, certo, alcune cose sono da pubblicare e altre no, ma non stigmatizziamo chi, pur senza avere talento, ci prova, il cuore ce lo mette allo stesso modo in cui ce lo metteva Montale. Aggiungo che un po’ di poesia nella vita non guasta mai. Pure due belle cosce di donna possono essere poesia per qualcuno. Io una poesia così non la butterei via.

Oltre a essere un editore, ti cimenti anche tu con la scrittura. È da poco uscita la raccolta di racconti “La nostra voce non si spezza”. Quali sono i temi trattati? Perché la scelta del racconto come forma narrativa?

Il libro è in effetti il mio primo in prosa, e devo sempre dire grazie a Stilo editrice per averci creduto, proponendomi la pubblicazione. I temi sono due e si sovrappongono: uno, più sociale, è quello della provincia e del Sud, e il secondo è quello della perdita di una persona cara. Tutti i protagonisti dei racconti sono persone in bilico, a volte marginali, bloccate nella loro crescita umana per aver perduto qualcuno, quindi nella mancata elaborazione del lutto, reale o simbolico che sia, e questa perdita ha delle ripercussioni sulla loro vita sociale, quindi sul loro ambiente che è il Sud. Vogliono reagire ma non sanno come fare, per cui cercando di farsi sentire a più non posso. Da cui: la nostra voce non si spezza. Perché il racconto? Rispetto alla poesia perché volevo mettermi alla prova e vedere se ero capace di interessare qualcuno con le mie storie, magari allargare il mio pubblico; rispetto al romanzo perché è più facile da gestire come lunghezza e come tempi, soprattutto per chi, come me, lavora così tanto con le parole degli altri che delle volte gli mancano le forze di scriverne di proprie.

Che lavoro ti sarebbe piaciuto fare se non avessi fatto l’editore?

Il fotografo.

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