Ho deciso di fare un esperimento: sono andato a spulciare sotto gli ombrelloni lungo le nostre meravigliose spiagge per conoscere quali libri la gente sceglie di portarsi in vacanza o semplicemente in una giornata di relax. Tralasciando il mucchio selvaggio, tra “Settimana Enigmistica”, quintali giornali di gossip, Fabio Volo e Sophie Kinsella (ma davvero?), scoprire quello che si legge è stato sorprendente.
La mia attenzione si ferma per la prima volta su una donna dalla chioma rossa, non più giovane ma ancora bella che mostra fiera ai raggi di un bizzoso sole di giugno, “Gli anni” della pluripremiata francese Annie Ernaux. E quando le confesso di aver preferito, pur trovandolo stilisticamente geniale, “L’altra figlia”, la signora con tono raffinato mi spiega che «leggere Gli anni è come attraversare il tempo della propria vita. Un mirabile dipinto (fatto di parole che sembrano sempre usate al posto giusto nel momento giusto), un resoconto, spesso nostalgico del “tempo in cui non saremo mai più”». Le rispondo prima recitando la citazione in esergo di Ortega y Gasset: «Abbiamo solo la nostra storia ed essa non ci appartiene», poi le chiedo se non abbia trovato similitudini con “La storia” della nostra Morante. «Per carità, no – mi risponde agitata – quel romanzo non l’ho digerito!». Siamo in due, allora. Le sorrido e proseguo.
Faccio qualche passo e m’imbatto in un uomo, sulla quarantina dal fisico atletico, che seduto sulla sabbia sta leggendo “Il morso della reclusa” di Fred Vargas. «Amante dei gialli?» chiedo tentando un approccio che spero non venga frainteso (abbordare è più facile che intraprendere una conversazione sulla letteratura). Quello alza lo sguardo e mi risponde che in realtà la sua passione sono i thriller e che il libro è un regalo. E dopo aver notato che è metà del tomo, lo incalzo chiedendogli se ci sta capendo molto, lui mi risponde scocciato un «poco, veramente»; allora prendo la palla al balzo e gli confesso che per me è stata una vera delusione e che Fred Vargas con me ha chiuso. Si possono consumare un centinaio di pagine buone in una specie di trattato di zoologia (la storia dei ragni, bla bla bla)? E poi l’indagine risulta macchinosa (ho evitato il termine “brutta” per non rovinargli la sorpresa), spesso condotta dal caso e poi il protagonista Adambsberg si è trasformato in una caricatura. E al diavolo la classe per cui lo avevo amato in libri precedenti. «Sai che ti dico? – mi dice l’interlocutore – Questo libro mi stava annoiando in effetti. Mi hai convinto, lo mollo!». Chiude il libro lo lancia sul telo e corre verso l’acqua a tuffarsi. Bravo, gli urlo. Così si fa. Così si dovrebbe fare.
L’ultima delle mie fermate letterarie avviene molto più avanti. In un tratto di spiaggia libera, nessun lido, nessun bar e schiamazzi di ogni genere. La mia vittima è una ragazza. Giovanissima, ha una pelle bianca costellata di efelidi; per questo è sotto l’ombrellone. L’amica che l’accompagna deve essere in acqua. Riconosco immediatamente la copertina: quel ragazzino vestito da Spider Man mi è entrato nel cuore: “Un ragazzo normale” di Lorenzo Marone è uno dei libri più belli letti quest’anno. Lo confesso con emozione anche all’adolescente immersa nelle sue pagine, lei mi guarda mi stampa un sorriso e afferma: «Lo sto rileggendo per la seconda volta!». Come due innamorati pazzi – sì, di libri e parole – rievochiamo alcuni passaggi meravigliosi. Al suo, «È che non si dovrebbe tornare a guardare le cose che si sono amate, una volta cambiato lo sguardo», io rilancio con «…perché di magia c’è sempre bisogno: ti permette di non credere troppo al mondo là fuori, che ci mette un attimo a sbiadirti l’anima». Poi, flirtando come due scemi, all’unisono urliamo: «Ho sentito dire che i dolori ti restano sul volto e ti rubano il sorriso. Invece io credo che siano molto più riconoscibili le rinunce. Sono loro a deformare i lineamenti, spesso a incattivirli». Ci salutiamo, con una consapevolezza in più: il potere delle parole è immenso.