Stavolta sono rimasta frecata

L’argomento che più di tutti fa venire la bile ai professori di italiano è la poesia. Si cerca di ritardare il più possibile questo modulo, inventando tutte le scuse possibili, proprio come fanno i bambini quando la mattina non vogliono andare a scuola e inscenano un mal di pancia. Ecco elencate alcune mie “scappatoie”. 1: scusate ragazzi, non sto bene, vi mando il supplente. 2: oggi facciamo un’esercitazione di lettura, perché non sapete leggere. 3: che ne direste di vedere un film sulla mafia? (Alla parola film sento sempre un clamoroso urrà!).

Ovviamente è arrivato anche per me il giorno in cui ho dovuto prendere il toro per le corna. Abbiamo cominciato con un gioco, poi siamo andati avanti con l’analisi di una poesia d’amore, infine per forza di cose dovevamo addentrarci nella parte più tecnica del discorso.

“Bene, oggi parliamo di versi, rime, strofe…”

“Nooooooooo…”

“Shhh. Allora, come dicevo, il verso è dato dall’insieme delle sillabe…”

“Ah prof, ma chi è quel tipo lì che ha scritto l’Infinito?”

“Leopardi. Ora silenzio o vi metto due sul registro. Allora, riprendiamo. L’enjambement, l’allitterazione e la metafora sono figure retoriche che consistono…”

E avanti così per decine e decine di minuti, in cui mentre si provava a sviscerare la tecnica poetica con riferimenti alle poesie più famose, davanti a me si presentava uno scenario apocalittico: alcuni sbadigliavano a trentadue denti, altri sembravano affascinati dal paesaggio esterno, qualcuno si alzava per aprire la finestra, un altro la richiudeva, un altro ancora si lamentava del troppo caldo e chiedeva di poterla riaprire… Un manicomio, insomma.

A un certo punto si è alzato il genio della classe: “Prof., ma quello lì di m’illumino d’immenso non si poteva comprare una lampadina?”. E tutti a ridere di gusto.

Questo qui l’ho sbattuto fuori con tanto di annotazione sul registro, pregandolo di rientrare soltanto a fine lezione. E credo di essere diventata di colore verde in volto, più per l’offesa a Ungaretti che a me.

Finalmente dopo circa mezz’ora è suonata la campanella e ho tirato un sospiro di sollievo. “Non ci avranno capito una mazza, ma è fatta, la prima lezione di poesia è andata”, ho pensato mentre ero ancora sull’uscio della porta.

Pochi secondi più tardi rientra il genio della classe e mi sembra che tra le mani abbia qualcosa. La merenda? La carta di un cioccolatino? Ah no, è soltanto un foglio a quadretti.

“Tenga prof., ma lo legga solo quando va’ via”, e mi consegna il bigliettino alla svelta, senza farsi vedere dai suoi compagni.

“Oddio cos’è? Un j’accuse per averti sbattuto fuori?”, gli rispondo frettolosamente prima di dargli le spalle e correre in un’altra classe.

Percorro il corridoio. Dispiego il foglietto ancora un po’ risentita, ma subito capisco che non si tratta di quello a cui pensavo. Comincio a leggere le prime parole e non riesco a smettere, sento il bisogno di arrivare alla fine, che è questa: Poi arretro/e mi nascondo/dietro una maschera/che non mi appartiene.

Insomma, il ragazzino sbattuto fuori aveva scritto una poesia in quella mezz’ora: versi arrabbiati e dolenti, che parlano dell’urgenza di togliersi la maschera per tornare ad essere se stessi senza paura né pentimenti.

Ecco, questi sono i giovani. Quando pensi che non abbiano capito niente, ti dicono a muso duro che a non aver capito niente sei soltanto tu.

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