Versi randagi

Un “librino”, secondo la definizione di un noto giornalista, dalla copertina accattivante. Un cerchio e dentro una fanciulla che guarda in alto. Perché guardare in basso a volte dà la nausea.

All’interno versi denominati “randagi”. Un aggettivo insolito, ma polisemantico, che rimanda immediatamenti a chi vive ai bordi di un sistema sociale insoddisfacente, a chi vuol sentirsi libero, senza padroni. La non apparteneneza garantisce spirito lieve, fuori da ogni calcolo, anarchica capacità di inseguire sogni, costante movimento verso pensieri e sentimenti profondi.

  Questi versi di Alessandro Cannavale, nascono, a mio avviso, dall’essere o sentirsi frequentemente bambino, termine che nella raccolta ricorre ora in funzione di sostantivo ora di aggettivo. Una condizione di stupore indispensabile per saper poetare. E sentirsi bambino serve a neutralizzare le “ferite aperte” dell’essere tutti naufraghi “salvati dal buio nel calore di un abbraccio”. E “il dio bimbo che giocava a dadi” è di una tenerezza e di una solennità fuori del comune, pari alla certezza futura di due versi icastici: “ Incontrerò un bambino. Quel bimbo avrà i miei occhi”.

 La silloge, credo d’esordio, ha altre parole-chiave. Una è “memoria”.

Nonostante la giovane età, il poeta avverte il senso del tempo che passa ”immane frana di istanti” e conserva ri-cor-di del passato “matassa-trama di memorie”. E la memoria spesso procede per dettagli: uno di questi è la gioia legata alla soglia di casa. Il cammino degli anni  si riconosce sotto le porte. Perciò struggente è la metafora di quegli anni, “ingialliti nella cassetta della posta”.

L’altra parola chave è “luce”, che ritorna insistente soprattutto nelle liriche d’amore. Bellissime. L’Autore scopre la leggerezza appassionata di termini come “avorio-calice-fiore-ali di vento- petalo di rosa-lancetta che conta le ore- chiavi dello stupore-fragranza dei giorni”. Egli è ammaliato dal respiro di lei. Anche se preda di “dubbi irrisolti”, è un gigante se le tiene la mano. Ed è la “luce” ad illuminare questo sentimento, che è miracolo e gratitudine, in grado di forgiare la sua storia. Un amore che include quello per il padre, la cui bontà rifulge in quelle “mille molliche di pane” e nell’originale immagine del ”ventaglio di bene”

E tuttavia il cerchio magico del sentimento amoroso non gli impedisce di uscirne per raccontare la vita, che gli appare un viaggio “in balia di un tempo duro”, “di ombre di calce e muto disagio, di noia che conquista tempo irredento”. Il tutto mitigato dal cielo bellissimo del  Sud, terra amara (anche se dal sapore del pane “patti di molliche”) e amatissima. Ed è per questo che ogni volta Cannavale lo cita col possessivo “nostro” (“Nei nostri dialletti si infrangono tutte le frontiere”).

Echi e risonanze di Ungaretti (la brevità-l’essenzialità), anche di Bodini in quelle descrizioni di paesi, “di madri in terrazza, di nonne nere con la testa bianca, di vecchia immobile sull’uscio, del paracarro coi segni dei secoli, dell’ombra di una coppola o della calce, dei denti rotti delle persiane”. Ma col gusto di accostamenti originali, di immagini visive e cinestetiche ardite, di un disvelamento sottile che passa attraverso le parole e sa andare oltre.

E in questa narrazione nessuno potrebbe dubitare che Alessandro appartenga a Lecce, al Salento di luce, di pietre e di limoni: terra redenta dai figli del Sud. Ma il poeta appartiene anche alla categoria degli uomini che non amano il potere, anzi lo contestano nel dissenso e nella rivolta. Egli è uno che orgogliosamente lotta per le proprie scelte, guarda  agli ultimi e agli esclusi nella speranza di una porta che si apre. Egli non tradisce i propri cari né i propri morti: “sacro confine è l’ombra del gelso”.

In questa sintassi di sentimenti predisposta all’incanto, qualche volta i suoi versi randagi si fanno esortazione, quasi un bisogno di suggerire un argine alle brutture dei nostri giorni e alle “piccole catastrofi di rami spezzati”. Oppure si traducono in speranza per questa umanità che avrebbe bisogno di “abbracci” e per la quale, abbandonandosi al flusso delle emozioni, auspica “un vento nuovo”.

 “Versi randagi”: da leggere e rileggere con rinnovata meraviglia…

Controcanto a questo suggestivo lavoro poetico sono i disegni (opere grafiche?) di Miriam Piro. Quel segno lieve di matita, quell’uso esclusivo del nero-grigio e del rosso sono un incantevole ricamo che “decora” i versi di Alessandro. Ho trovato in questi schizzi(?) una bellezza che mi ha rapito, una sensibilità femminile che ha saputo cogliere in modo del tutto imprevedibile e personale l’anima di Cannavale. Entrambi salentini, entrambi di formazione scientifica, si sono ritrovati a raccontare il dolore e gli affanni degli uomini e delle donne del nostro tempo. In particolare del nostro Sud. Ma anche espressioni amorose di bellissima fattura.

Costante la mia meraviglia nel cogliere nello sguardo delle donne raffigurate occhi tristi, pensosi, stupiti, nostalgici, sorridenti, malinconici, intensi, maliziosi, sognanti, corrucciati. La straordinaria capacità artistica di Miriam coglie in ogni testo di Alessandro quell’elemento su cui costruire la sua rappresentazione. E quando la sua attenzione non si posa sui volti femminili, sono dettagli e particolari in rosso a emozionare la sua mano e a permetterle di tradurre i versi in un commento che rafforza e rivela lo spirito dei testi: un anello-un fiore-le unghie laccate-il rossetto sulle labbra-un nastro tra i capelli-un vestito…

In questo continuo confronto, dinamico e silenzioso, tra testo e illustrazioni, talora sono i corpi (sempre di giovani donne) che, attraverso posizioni in movimento o con la scelta tutta femminile di insistere sul valore simbolico della chioma, alludono ora ad una perdita, ora al vento, ora ad un sorriso, ora ad una mano che accoglie…

Lizia De Leo

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