Nella provincia marchigiana, quella più autentica, fatta di lavoro e sacrificio e «una campagna disegnata dai pastelli di un dio e insozzata dagli eccessi degli uomini», un gioco come tanti degenera nella scoperta che distruggerà la spensieratezza e il futuro di un quindicenne. O, forse, a frantumarsi in mille piccoli pezzi è solo la campana di vetro della sua inconsapevolezza. L’11 settembre 2001, mentre il mondo «vagava stordito con lo sguardo rivolto al cielo», Riccardo Graziosi frugava nel cassetto proibito di una madia alla ricerca dei giornali confiscatigli dal padre.
Quando quel ragazzo qualunque decide di sperimentare il brivido della disobbedienza e sfila quel cassetto dai binari, si imbatte in tre cartelline color limone, sdrucite e implacabili come la verità. È allora che realizza il motivo per cui gli è toccato crescere ai margini di una famiglia felice, e il fisiologico disagio adolescenziale diviene in lui la fiamma che gli impedirà di vivere serenamente, il perpetuo bruciore dell’anima che guiderà ogni sua scelta.
Come spesso accade, però, i nodi dell’esistenza tendono inspiegabilmente a ripetersi e il ventiseienne Riccardo, insieme alla moglie Sara e ormai affrancato dagli inganni famigliari, scopre di essere stato privato di un futuro nella stessa misura in cui è stato privato di un passato.
Ma è difficile parlare della Rampicante di Davide Grittani (Liberaria, 2018) senza incorrere nel rischio di fornire al lettore sgradite anticipazioni. Basti, ai curiosi, sapere che a questo punto – sullo sfondo della nuova casa del protagonista, in una palazzina ricoperta da «un’edera moribonda ma ancora in vita» – entra in scena la “bambina rampicante” in qualità di imperfetto e a tratti inquietante deus ex machina.
«Edera, così l’avevano chiamata in uno slancio di speranza, in un rimbalzo di gaiezza. […] Edera, perché questa rampicante conserva meglio di qualsiasi altro vegetale le tracce della fatalità. Risorge se la estirpano, ricresce se la tagliano, reagisce se la umiliano. S’aggrappa dove può, un po’ come la vita».
Edera, bionda e riccioluta, ghigno severo sul volto e tante voci nella testa, è “la figlia della scema”, la bambina strana che tutti evitano per la sua condizione atipica e per il senso di inadeguatezza che incute; la bambina che non parla mai e, quando lo fa, pronuncia parole che sono pietre.
«[…] sembrava che avesse investito nella malattia facendo tesoro del silenzio, distinguendolo dalla violenza delle voci che sentiva. Aveva imparato a distillare il nulla. Nel silenzio cresceva, nel silenzio mangiava, nel silenzio costruiva i personaggi irreali della sua vita, nel silenzio viveva la sua straordinaria condizione di bambina rampicante, nonostante avessero tentato di reciderla così presto».
A partire dal primo incontro fra queste due «sensibilità sfregiate», l’affinità elettiva tra Riccardo ed Edera si fa sempre più evidente e, per molti, equivoca. Il loro legame però si rafforza, diviene l’unica via d’uscita per entrambi. Riccardo taglia le foglie che oscuravano la sua finestra per far spazio a Edera, che nella penombra trova un nuovo vaso in cui crescere.
Ma «chi l’ha detto che le cose belle hanno bisogno di luce?». L’edera cresce al buio, il poco sole che riceve le basta per attecchire e restituire al mondo la propria bellezza. Allo stesso modo La rampicante si sviluppa tra le ombre, innumerevoli, di cui l’animo umano è capace: c’è l’anaffettività, innanzitutto; c’è l’incostanza nel prendersi cura dei propri affetti, dell’amore, dell’amicizia; c’è l’inganno, oblio nel quale talvolta si sceglie di annegare realtà scomode; c’è la noncuranza di chi si lascia vivere, sprecando il proprio tempo come se fosse illimitato; c’è l’avidità con le sue declinazioni; e c’è la vendetta con la spirale di complicazioni che essa si porta dietro.
Numerose come foglie sono le tematiche di questo romanzo, tanto da rischiare di oscurare la vicenda portante. Eppure, la prosa scorre limpida e avvolgente, elegante si avviluppa attorno alle ramificazioni della trama senza mai lesinare un’occasione di riflessione in terza persona – attraverso un narratore onnisciente che alterna poesia e pugni nello stomaco – o in prima persona – attraverso le parole in corsivo del protagonista, un uomo in bilico tra un passato interrotto e un futuro negato. Il terreno inoltre è comune, ogni ramo sboccia da un’unica riflessione preponderante: «Ci siamo meritati tutto ciò che abbiamo avuto?». Siamo in grado di riconoscere e accettare i doni, di dimenticarcene e proseguire il cammino? Siamo in grado di comprendere la vita, di meritarcela e metterla a frutto?
Il terzo romanzo di Davide Grittani ha il grande pregio di stimolare riflessioni e, perché no, sensi di colpa chiarificatori, senza mai apparire didascalico o retorico nel trattare argomenti spinosi (uno su tutti, la donazione degli organi), lasciando al lettore il compito di riflettere sulla condizione umana e lasciandogli la sensazione della terra fra le dita: per comprendere le cose occorre andare alla radice, toccarla con mano, strapparla, quando serve, e trapiantarla in un vaso più grande. E da questa lettura si esce con una prospettiva più ampia, con una consapevolezza pronta a espandersi in più direzioni, con il coraggio necessario a resistere e a germogliare nonostante il buio.