L’anima e il contabile

C’è stato un tempo nel quale non riuscivo a distinguere un amico da un compagno di studi, oppure di giochi. Ero poco più che bambino e, in quanto tale, ero vittima di tutte quelle illusioni che mutuano la realtà in modo prepotente e indelebile. Ero solito invitare Jonathan, mio compagno di banco, a studiare a casa: ero straordinariamente deficitario nelle materie scientifiche, e lui poteva darmi una mano a recuperare le mie insufficienze. Nei pomeriggi invernali, mia madre era solita viziarci con abbondanti tazze di cioccolato caldo e biscotti secchi acquistati da una delle migliori pasticcerie della città. Come qualcuno di voi ben saprà, la mia famiglia è sempre stata benestante, grazie soprattutto alle fortune accumulate dai miei nonni paterni con il commercio delle pelli. Nella mia casa non mancava nulla di ciò che poteva definirsi “lussuoso”, dalla mobilia pregiata alle collezioni di porcellane e argenti, dalle centinaia di libri sistemati in ordine di casa editrice sui ripiani di librerie di noce ai quadri di paesaggi finemente incorniciati appesi lungo i due corridoi. Anche i miei giochi erano di un livello qualitativo così alto che tanti miei coetanei potevano solo immaginarli, a al massimo vederli illustrati in qualche rivista. Jonathan veniva quindi accompagnato a casa mia dai genitori, una volta dalla madre, una volta dal padre, per poi restarvi sino a pomeriggio inoltrato. Lo studio di matematica e geometria veniva alternato a momenti di svago, approfittando dei tanti giochi a mia disposizione. Dopo un po’ di tempo, iniziò ad accadere una cosa: per ogni problema che mi aiutava a risolvere, Jonathan pretendeva da me una ricompensa, praticamente uno dei miei giocattoli. Io glielo facevo scegliere e lui prontamente lo infilava nel suo zainetto di tela. Mi sembrava giusta quella mia azione: ricompensavo solo un amico per la sua generosità nell’aiutarmi a comprendere quelle materie, d’altronde. E poi, i miei giochi erano talmente tanti che papà e mamma mai si sarebbero accorti della loro assenza. Per me Jonathan era diventato, nel tempo, amico e compagno di giochi e di studi, tre qualità riunite nella stessa persona. Non facevo distinzione tra esse, e tutte e tre mi sembravano eccezionali. Solo zia Elizabeth mi prese una volta da parte per confessarmi che lei nutriva qualche dubbio sul rapporto esistente tra me e Jonathan. Usò una parola per definirlo, una parola che non avevo mai sentito prima: ricatto. E mi spiegò la sua dinamica, così tanto simile a ciò che in realtà avveniva ogni volta che io e il mio compagno affrontavamo un nuovo problema da risolvere. Infatti, lui poneva sempre una condizione che prevedeva un compenso, alla fine. Solo che, per me, non sembrava una cosa cattiva, in fondo. Perlomeno, sino ad allora. Decisi di invitarlo a casa sempre più raramente.

Terminato quel corso di studi, di Jonathan non ne sentii più parlare. Dopo la laurea, entrai nell’azienda dei miei, occupandomi quasi subito dei rapporti commerciali con i mercati esteri, grazie anche alla padronanza di alcune lingue.

Un giorno, mentre rientravo nel mio appartamento nei pressi di Sloane Square, mi sentii chiamare. Prima per cognome, poi per nome. Avevo già la chiave del portone in mano. Mi voltai in direzione della voce e ne individuai il proprietario. Era un tipo abbigliato in modo dozzinale e calzava scarpe da poche sterline. Me ne resi conto mentre mi veniva incontro, causandomi stranamente un senso di malinconia improvvisa. Lo stesso senso che provavo negli incubi che avevano spesso frequentato le mie notti da adolescente, nei quali c’era sempre la medesima casa di un sobborgo triste e grigio e uno strapiombo a pochi metri del quale non riuscivo mai a vederne il fondo. Già, la stessa malinconia, struggente e invalidante.

Era lui, Jonathan, quello che stava tendendo la mano per salutarmi. Ma che tipo di sorriso era mai quello che sfoderava, denunciando una dentatura poco curata? Gli occhi avevano il colore della cima di un iceberg emerso da un mare di desolazione.

“Ross, vecchio mio, come stai?”, esordì quasi spavaldo. Io non sapevo come e cosa rispondergli. Sì, insomma, averi dovuto dirgli come stavo “prima” di essere stato chiamato da lui, oppure in “quell’esatto momento” nel quale egli stringeva la mia mano? Accennai un “bene, e tu?” che dovette suonargli falso nel tono e nell’intenzione perché il suo sguardo si stranì, ma fu solo per un attimo.

“E’ questo il modo di accogliere un vecchio amico?”, insistette, dopo avere liberato la mia mano dalla sua.

“Perdonami, Ross, ma eri l’ultima persona che avrei pensato di incontrare oggi”, tentai di giustificarmi, quasi balbettando.

“Be’, cosa fai? Non m’inviti nemmeno ad entrare?”, disse, quasi spingendomi verso l’ingresso.

In quel tempo non ero ancora sposato e vivevo da solo: aprii e gli feci strada verso il salotto. Lui non aspettava altro, così perlomeno dava a vedere. Individuato il divano, vi si accomodò sopra, senza neanche sfilarsi il soprabito liso ai gomiti. Ora che ci penso, non mi diede la sensazione di accomodarsi soltanto, sembrò proprio come se in quell’ambiente egli ci avesse vissuto da sempre. Magari in uno di quegli incubi che mi ero portato dietro da ragazzo.

“Vivi da molto qui, Ross?”, mi chiese, accavallando le gambe.

“Da circa sette anni”, gli risposi, sospettando che egli, in fondo, lo sapesse.

“Avrai una vita intensa tra lavoro e divertimento, d’altronde sei ancora scapolo. Chissà quante donne riceverai qui, a casa, tutto da solo …”

“Sono fidanzato da poco più di due anni”, tentai quasi di giustificarmi, mentre restavo in piedi, fissando le sue scarpe deformate per l’umidità.

“Allora, la tua sistemazione è imminente”, disse sorridendo. “Avresti uno scotch, per caso? Mi riscalderebbe, visto che sono stato fuori ad aspettarti, al freddo”, aggiunse con un tono di semi rimprovero.

Gli servii allora un bicchiere del miglior torbato che avessi. Lui bevve, poi alzò gli occhi al cielo, sospirando, poi disse con un tono compiaciuto: “Hai davvero una bella casa, mio caro Ross”.

“Non posso certo lamentarmi …”, gli risposi. Poi, dopo un attimo di silenzio, gli chiesi come mai avesse voluto incontrarmi. Mi sedetti di fronte a lui, attendendo curioso di sapere.

“Se ti dicessi che l’ho fatto per nostalgia, mentirei”.

“E quindi …”

“Tre anni orsono ho perso il mio lavoro di contabile presso la Coleman Redford & Sons … la conosci, no?”

“Chi non la conosce? E’ la più grande ditta di trasporti nell’Est dell’Inghilterra”, confermai. “E come mai lo hai perso, se non risulto indiscreto?”

“Un giorno, uno dei figli del vecchio Coleman scoprì che avevo una relazione clandestina con la cognata, moglie del suo fratello prediletto. Nulla di serio, eh, ci divertivamo soltanto, ma tant’è”

“Soltanto?”

“Dai, non fare il puritano, Ross! D’altronde era lei a provocarmi continuamente. Tu cosa avresti fatto?”

“Non saprei, non mi è mai capitata una storia del genere”, dissi, bevendo il mio scotch.

“Insomma, per farla breve, Ross, ho bisogno di un nuovo lavoro e ho pensato a te e alla tua azienda. Sino a pochi mesi fa ho vissuto grazie a qualche risparmio e a una piccola rendita di famiglia, ma oggi sono quasi completamente indigente. Ho bisogno assolutamente di lavorare. Sai quanto sia bravo nelle materie contabili; e se hai potuto passare alcuni esami è stato anche per merito mio, ricordi?”

“Un aiuto per il quale ti ho sempre ricompensato, però”

“Diamine, stai a recriminare per qualche automobilina e degli assurdi giocattoli di legno che non ricordo neanche più che nome avessero”

“Jonathan, tu mi ricattavi: è questa la verità”, dissi, puntandogli contro l’indice.

“Va bene, va bene, pensala come vuoi, è un tuo diritto. Sappi, però, che aiutarti mi faceva sentire importante, utile, e ciò mi ripagava”

“Oltre ai miei giochi …”

“Ok, piantiamola qui. Hai un lavoro per me, insomma, uno qualsiasi?”, chiese, posando il suo bicchiere vuoto sul tavolino di fianco al divano.

Lo fissai, poi sorrisi leggermente.

“Non c’è niente di divertente, Ross. Sono sulla soglia della disperazione: se non fosse per l’Opera di Saint Andrew, non mangerei nemmeno quell’unica volta al giorno”

“Vedrò cosa posso fare, Jonathan. Non sono io che decido chi assumere in azienda. Il periodo, poi, non è neanche dei migliori, la concorrenza asiatica ci sta togliendo fette importanti di mercato. Ti farò sapere”, dissi alzandomi, col chiaro intento di fargli intendere che per me quel colloquio poteva considerarsi terminato.

“Grazie per avermi ascoltato” sussurrò quasi lui, mettendosi in piedi. Frugò nella tasca del soprabito e tirò fuori un bigliettino che poi mi porse: “E’ il numero di telefono al quale potrai eventualmente chiamare se avrai un lavoro per me. Risponde la signora Ronson, che poi è la proprietaria della stanza in affitto nella quale vivo. Dille solo, magari, che vuoi incontrarmi. Quando lei me lo riferirà, io capirò e ti raggiungerò in azienda, ok?”

Ci salutammo con una stretta di mano, e così andò via. Lo seguii con lo sguardo sino all’angolo dietro il quale scomparve.

Una mattina di molti mesi dopo, al mio ingresso in azienda, la signorina Müller – teutonica segretaria storica sin dai tempi di mio padre- mi annunciò che aveva fatto accomodare nel mio ufficio un tale che si era presentato come “il mio migliore amico”, e che adesso mi attendeva. Non ebbi il coraggio di rimproverarla, anche perché quelli erano gli ultimi mesi che avrebbe ancora trascorso in azienda, approssimandosi la sua giusta e meritata pensione.

Entrai quindi nel mio ufficio e me lo ritrovai davanti, abbigliato in modo impeccabile, più che elegante. Jonathan sfoderò un sorriso che non mi sarei aspettato, e mi salutò quasi con entusiasmo. Non lo avevo più richiamato in quei mesi, e perciò mi sarei aspettato di ritrovarlo quantomeno imbronciato, invece, tutto il contrario: eccolo qua, rinnovato nell’aspetto e nell’atteggiamento.

“Be’, non mi dici niente?”, chiese, dopo avermi salutato.

“Ti trovo bene, anzi, più che bene. Hai finalmente trovato lavoro?”, dissi, invitandolo ad accomodarsi sulla sedia di fronte alla mia scrivania.

“Direi proprio di sì. Certo che, avessi aspettato una tua chiamata …”

“Hai ragione, Jonathan, ma sai, questi mesi sono stati molto complicati. Gli affari hanno subito un ulteriore rallentamento, tanto dal metterci in difficoltà con le banche, pensa tu, una cosa mai successa.”

“Già, so che non te la stai passando bene, purtroppo.”

“E come fai a saperlo, scusa?”, chiesi, sporgendomi in avanti verso di lui.

“Le amicizie non mi mancano ormai, soprattutto tra gli ambienti bancari. Proprio settimana scorsa ho pranzato con lord Frantzen, il grande capo dell’omonima banca d’affari. La tua azienda ha aperto tre conti correnti presso di loro, no?”

“Ma come diavolo si è permesso di rivelarti… “

“Non è stato lui a dirmi dei conti, mi ha solo detto che conosce la tua famiglia da sempre; il resto l’ho scoperto da solo.”

“Lavori per un’agenzia di investigazioni?”

“Una roba del genere …” mi rispose, sorridendo.

“Cosa vuoi da me? Non penso tu sia venuto solo per salutarmi. E’ così?”

“I tuoi pregiudizi mi rattristano, mio caro Ross, e non rendono merito alla mia cortesia.”

“Tu hai sempre un secondo fine, Jonathan.”

“Sono venuto per aiutarti, come dovrebbe fare un buon amico, tutto qua. E bada che non lo faccio per darti uno schiaffo morale, visto che oggi sei tu in difficoltà quanto lo ero io quando sono venuto a trovarti.”

Mi alzai dalla mia sedia e lo raggiunsi, aggirata la scrivania: “Te lo richiedo: cosa vuoi da me?”

“Quanto saresti disposto a dare per recuperare i fatturati perduti e ridiventare il numero uno sul mercato?”, mi chiese, fissandomi negli occhi. Terminato di proferire quelle parole, serrò le mascelle.

“Che diavolo di domanda è mai questa, Jonathan?”

“Una notte di poche settimane fa non riuscivi a dormire, ricordi? Ti rigiravi nel letto, sudato, pensando alle scadenze dei giorni a venire. Rammenti cosa dicesti?”

“No …, non ricordo…”, gli mentii. Mi poggiai con le spalle alla libreria, tenendo il capo basso.

“Quella notte dicesti che avresti dato l’anima perché la tua azienda potesse essere risanata. Ebbene, eccomi qui.”

“Sei pazzo, completamente!”, gli dissi a pochi centimetri del suo viso, alzando il tono della mia voce.

Lui, senza scomporsi, mise la mano nella tasca interna della giacca e tirò fuori un foglio piegato. Lo aprì, diede una veloce lettura come per confermare a se stesso quanto vi stesse scritto, poi lo posò sul ripiano della scrivania. “Leggilo”, mi disse. Poi continuò: “Io non ho fretta. Tu, a quanto pare, sì, invece. Mi trovi a quel numero di telefono scritto in basso, sul foglio”.

Ciò detto, Jonathan si alzò, si diede una sistemata alla giacca e, posandomi la mano sulla spalla in segno di saluto, si congedò.

Così, restai solo nel mio ufficio. Recuperai dalla scrivania il pezzo di carta che mi aveva lasciato e lo lessi. Non credevo ai miei occhi: Jonathan voleva farmi firmare una specie di contratto che prevedeva il risanamento economico della mia azienda in cambio della mia anima. La mia anima, capito? Mi sembrava di essere stato catapultato in un incubo -un altro- nel quale mai avrei pensato di vivere.

Cosa avrei dovuto pensare: all’ennesimo e ultimo ricatto di Jonathan sotto forma di diabolica obbligazione, oppure a uno scherzo di cattivo gusto?

Tre giorni dopo, si presentò in azienda l’ufficiale giudiziario con un atto di pignoramento. Un intero ciclo di lavorazione si sarebbe così fermato per chissà quanto tempo. Poca cosa, visto che gli ordini ormai scarseggiavano, d’accordo, ma la notizia avrebbe fatto il giro del Paese e il pignoramento sarebbe stata la macchia di un peccato difficile da cancellare.

“Quanto tempo abbiamo per pagare?”, chiesi al messo.

“Una settimana”, rispose lui seccamente, poi si congedò.

Tornai a casa prima del previsto: avevo necessità di riflettere. Riempii un bicchiere col mio miglior bourbon e mi stravaccai sul divano. Solo dopo cinque minuti mi resi conto che non mi ero nemmeno liberato del trench. Allora me lo sfilai da seduto e, nel riporlo al mio fianco, notai il foglio lasciatomi da Jonathan che spuntava da una tasca. Lo tirai fuori e ne rilessi il contenuto: rabbrividii, questa volta. E nulla potette riscaldarmi, neanche il sorso unico e lungo che diedi al mio whisky.

Fu una lunga notte insonne, quella. Ombre sinistre proiettate dal mondo esterno alla mia finestra si stagliavano sul muro di fronte al mio letto. Immobili per alcuni secondi, esse si muovevano poi nervosamente seguendo il profilo dell’armadio.

Alle tre del mattino, ormai esausto per il mancato arrivo di un sonno ristoratore, mi alzai dal letto. Indossai e raggiunsi la cucina. Sentivo il bisogno di bere qualcosa di caldo, così presi il latte dal frigorifero e lo versai in un bollitore. Ci vollero meno di cinque minuti perché fosse pronto. Mi sedetti con la tazza calda tra le mani e ne presi due piccoli sorsi.

Mi risvegliai con il capo riverso sul tavolo della cucina che erano già le otto passate. Mi rasai e feci una doccia veloce, ascoltando -come facevo di solito- le ultime notizie alla radio: nel mondo, quella notte, non era accaduto nulla di straordinario ed io, invece, non sapevo cosa fare di quella assurda proposta di Jonathan. Questi voleva la mia anima nel senso letterale del termine, oppure intendeva qualcos’altro? Mi vestii e uscii di corsa da casa.

Mi tormentai sino all’arrivo del vagone della metro che, stranamente, non sembrava affollato. Accomodandomi sul sedile, non potei impedire di far cadere il mio sguardo su una mamma di colore – seduta di fronte a me- che accudiva tra le braccia il suo piccolo. In netto contrasto con la sua corporatura robusta, la mano che accarezzava il capo del figlio era invece sottile, regalando a quel gesto un carattere di delicatezza che stonava con l’ambiente intorno e con lo sferragliare indispettito del convoglio.

Cos’è l’anima, in fondo, mi chiesi, distogliendo lo sguardo dalla mamma e rivolgendolo al finestrino. Forse non esiste nemmeno, è solo una credenza popolare. Ed io, non seguendo alcuna religione, avrei potuto anche cedere a quella specie di ricatto, dandola in cambio di un futuro migliore. Non ne avrei mai sentito la mancanza, arrivato in punta di morte.

Fu così che riuscii a consolare me stesso e ad affrontare meglio il tragitto tra la fermata della metro e la mia azienda.

Entrai in ufficio deciso a rintracciare Jonathan per dirgli che sì, avrei accettato la sua proposta. Digitai il suo numero al telefono e attesi. Al sesto squillo rispose.

“Pronto?”

“Pronto? Sono io, Jonathan. Sono Ross”

“Sapevo che mi avresti chiamato. Allora?”

“Ho deciso di accettare”

“Bene. Vuoi che ci vediamo subito?”

“Prima concludiamo, meglio è per me”

“Tra un’ora sarò lì, da te”

Chiusi quasi contemporaneamente a lui, senza salutare.

Puntuale come l’influenza invernale, Jonathan si presentò davanti alla mia scrivania. Era abbigliato senza cura, scapigliato e non rasato. Un’immagine ben diversa da quella della visita precedente, ma molto simile a quella del nostro incontro di mesi prima.

“Cos’è, non mi dai nemmeno la mano per salutarmi?”, chiese lui, porgendomi la sua.

“Non mi sembra il caso, potrai comprendere”, gli dissi, mentre recuperavo il suo contratto da firmare.

“Scommetto che sei rimasto sorpreso dal mio aspetto”

“Abbastanza, ma non credo sia importante”, risposi mentre firmavo l’accordo.

Rilessi il tutto e glielo passai. Lui prese il foglio e, dopo aver dato l’impressione di leggerne anch’egli il contenuto, lo appallottolò e lo gettò nel cestino di fianco alla scrivania.

“Ma che fai?”, gli chiesi, dopo avere seguito la traiettoria del lancio.

Jonathan si lasciò andare a una grassa risata, una risata che fece muovere tutto il suo corpo.

“E tu … tu saresti il grande capo d’azienda”, disse lui, continuando a ridere.

“Sei un folle …” balbettai quasi.

“Ci sei caduto come un pivello, Ross. Come un classico figlio di papà, quale sei sempre stato: fortunato e, consentimelo, alquanto smidollato”

“Cosa vuoi intendere, bastardo?”, m’infervorai, stringendo i pugni mentre mi alzavo dalla sedia.

“Intanto, vacci piano con le parole. Ma tu hai veramente creduto che io potessi chiederti l’anima in cambio del denaro che necessario per rimettere in sesto la tua azienda? Complimenti!”, la sua risata si fece più sostenuta.

“Era tutto un bluff?”

“E già, caro il mio Ross. Un bluff, anzi la giusta punizione per il tuo comportamento da egoista. Sapessi per quanto tempo ho atteso quella tua telefonata perché mi assumessi: giorni e notti senza mangiare e dormire, vagando per la città come un barbone. Sino a quando ho poi conosciuto Jeremy, un attore di teatro che, quasi adottandomi, e preso dalla compassione, mi consigliò il bluff nei tuoi confronti. Mi disse che, qualora fossi stato pronto, mi avrebbe prestato i suoi migliori abiti di scena”

Crollai sulla sedia a corpo morto. Mi aveva preso in giro, ed io ci ero cascato.

“Come faccio io, adesso?”, sussurrai tra le labbra.

“Proverai cosa ho provato, e cosa provo ancora io … a meno che?”

“…a meno che …?”

“ …non ti serva un buon contabile come il sottoscritto: scaltro il giusto, e con qualche amicizia tra i bancari che gli è ancora rimasta. Non voglio la tua anima, ci mancherebbe, voglio solo un’occasione per dimostrare a me stesso che sono ancora un valido professionista”

Strinsi la testa tra le mani, poi lo guardai mentre, terminato di sorridere, teneva le mani nelle tasche dei pantaloni lisi.

“Da domani puoi venire a lavorare qui …”, dissi.

“Ti darò una mano a far risollevare quest’azienda, vedrai!”

“Intanto ho un pignoramento che pende sul capo …”

“Fai fare a me, e preoccupati solo di tranquillizzare clienti e fornitori. Ai conti ci penso io”, concluse, uscendo dall’ufficio.

Avevo imparato la lezione? Certamente.

Ci vollero sei o sette mesi perché l’attività riprendesse lo slancio dei periodi migliori. Jonathan è ancora il mio contabile, si è sposato e ha due figli. Uno porta il mio nome.

La vita è meravigliosa, in fondo.

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