Esther Shapiro è una ragazza di 19 anni, nata e cresciuta a Williamsburg, New York. Non stiamo parlando di un quartiere, ma di un microcosmo che si è creato qui a partire dalla fine della seconda guerra mondiale ed è una realtà sconosciuta ai più. È la comunità ortodossa chassidica Satmar. Esty è andata in sposa a Yanky e ne è felice perché tutti le hanno detto che grazie al matrimonio andrà incontro a una nuova vita. Veste l’abito da sposa con emozione, è pronta ad affrontare tutto nei panni della moglie ortodossa perfetta, si culla sulla melodia dei canti in yddish per farsi strada nel mondo. Ma Esty non è una ragazza qualunque, si sente strana, diversa da tutte le altre – a partire dal padre ubriacone e dalla madre che l’ha lasciata alle cure della nonna e della zia per scappare dalla comunità – e lo confessa anche al suo futuro sposo durante il loro primo incontro. Lei è piena di domande sul mondo, sulla gente che incontra per strada e non ha avuto il suo tzniut, l’insieme di regole riguardanti modestia e umiltà nelle comunità ebraiche ortodosse. Però piange quando le rasano la testa a zero perché le donne sposate non possono mostrare i propri capelli agli uomini, piange quando rinuncia alle lezioni di pianoforte e soprattutto quando non riesce ad avere figli. Perché i membri della comunità Satmar hanno un compito molto importante, quello di ripopolare i sei milioni di ebrei uccisi durante l’Olocausto. Quando capisce che la nuova vita a cui anelava non busserà alla sua porta, scappa e va a Berlino, alla ricerca della sua felicità. A pensarci bene è un paradosso. Un’ebrea che cerca la libertà nella città in cui si è iniziato a diffondere l’idea dell’Olocausto sembra stridere con tutto. Trova poca logica. E l’emblema ne è il momento in cui un ragazzo di Berlino la porta al lago e le dice: «Vedi quella villa? La conferenza in cui i nazisti decisero di mandare gli Ebrei nei lager si tenne lì nel 1942».
E lei risponde: «E voi nuotate in questo lago?».
Ma quel lago, agli occhi di quel ragazzo e dei suoi amici, è solo un lago come tanti altri. Ci aspetteremmo che Esty si allontani, scappi inorridita così come ci suggeriscono il tono di voce e l’espressione, e invece no. È proprio lì, in quelle acque, che si rivela una donna fragile e forte, pronta a lasciarsi alle spalle tutto e a ricominciare. Il ritorno all’origine del trauma e il suo superamento in un atto comune – quello di togliere lo sheitel, la parrucca che indossano le donne sposate –, una storia che si ritorce su se stessa e mette in risalto il chiaroscuro della propria esistenza. Il suo è un viaggio affascinante e disperato in cui noi la accompagniamo, in cui tutti veniamo a conoscenza di nuovi aspetti di quei valori che noi chiamiamo “normalità” e “libertà”. Lei scopre il nostro mondo, quello che diamo ormai per scontato e di cui non apprezziamo quasi più niente; noi impariamo che esistono altre realtà, altri mondi. E che il concetto di libertà personale non necessariamente è in linea con la liberà in senso stretto. Perché la prima è solo un riflesso della seconda, è lo scardinamento dei limiti imposti dal nostro modo di vivere, qualunque esso sia. Tratto dall’autobiografia di Deborah Feldman Unorthodox: The Scandalous Rejection of My Hasidic Roots pubblicata nel 2012, la serie è un concentrato di cultura e speranza. Non solo per il fatto di essere stato registrato all’80% in yiddish – una lingua di origine germanica quasi del tutto scomparsa e parlata solo dalle comunità chassidiche che risiedono soprattutto negli Stati Uniti e Israele –, ma per l’ambientazione, la cura dei dettagli che non vogliono mostrarci questo mondo come la faccia buia della medaglia, perché Esty se ne libera senza denigrarlo, perché anche Yanki, l’uomo da cui fugge, in realtà la capisce e vorrebbe che lei se ne rendesse conto ma…
La storia di Deborah Feldman ed Esty è una storia universale e contemporanea che racconta la necessità di non scendere a patti con nessuno per trovare la propria identità. Neanche con se stessi.