Va tutto bene?

Ironico, pungente, diretto. È questo Raffaele Montesano, autore di Va tutto bene.

Come nasce questa raccolta e di cosa parla?

Ho sempre concepito i miei libri non come singoli episodi nati dall’esigenza espressiva del momento, ma come tanti piccoli tasselli di un discorso che – almeno nelle intenzioni – vorrei portare avanti per tutta la mia vita. Sia nel mio primo romanzo Le guerre dei poveri che nell’ultimo Certi capivano il jazz è presente un filo conduttore rappresentato da tre elementi costanti nei miei lavori: il tentativo di sviluppare una poetica personale; l’amore sconfinato per la mia terra, la Basilicata; l’attenzione al linguaggio, intesa come ricerca tecnica sulla lingua della narrazione.

In Va tutto bene queste tre direzioni sono esplicitate dai tre capitoli in cui il libro è diviso e che ho chiamato Canzonieri: Sull’amore e altre forme di scortesia, con liriche incentrate sull’amore, definiamolo “classico”, ma con il tentativo di esprimerlo in maniera originale, rivoltandone gli stereotipi; Verso la terra, è un canto devozionale verso il posto in cui sono nato; Scherziè la parte in cui con la scrittura ci gioco, un po’ lo stesso metodo che il bambino utilizza per scoprire il mondo.

Vorrei che il lettore non intendesse questo libro come una raccolta, ovvero come una serie di poesie messe in qualche modo una dietro l’altra. È invece una narrazione che inizia a pagina 1 e finisce a pagina 122, un viaggio, come è – deve essere – sempre nei libri.

A chi si rivolge?

Nel mio prossimo libro di poesie, che attualmente è un semplice file word sul mio pc, ho pensato di inserire sulla prima pagina la domanda  “Cosa ti aspetti da me?”. Solo questa, e il resto della pagina in bianco. Questo anche per dire che è il lettore a scegliere, non l’autore. Non sono uno di quelli che scrive pensando a quale categoria di persone sarà indirizzato il libro, non ho un target, quello ce l’hanno i missili in guerra. Come dire: io scrivo, poi fate voi.

Una cosa però mi piacerebbe tanto. In questi anni noto un piacevole riavvicinamento al mondo della poesia. Gli editori, ma soprattutto i lettori, stanno tornando ad approcciarsi con meno diffidenza a questa parte dell’arte. Nelle librerie in cui vado sento sempre meno frasi del tipo: “Non leggo poesia perché è difficile”. Questo è un bene. È diventato anche un po’ più facile proporre lavori poetici alle case editrici senza avere porte chiuse da un lato, richieste di soldi dall’altro. Quindi, con tutte le cautele del caso, direi che non è un momento brutto per la poesia in Italia. Allora spero che questo mio libro contribuisca a ridurre ancora di più l’attrito verso questa forma d’arte e sia, in questo senso, pienamente nel suo tempo.

Come è nato il tuo rapporto con la scrittura?

Io ho iniziato a bazzicare il mondo dell’arte scrivendo canzoni. Poi ho ascoltato Led Zeppelin IVe ho capito che della musica io sarei stato sicuramente un ascoltatore, eventualmente un esecutore, ma mai e poi mai un autore. Mi si potrebbe obiettare che avrei dovuto avere la stessa reazione in ambito letterario di fronte a capolavori come Guerra e pace, I Demoni, Il giorno della Civettae via discorrendo. In realtà in un primo momento è stato così. Poi però ho capito che c’era un mondo che avrei voluto raccontare e che ancora nessuno l’aveva fatto. Sono partito dal vicino, ancora una volta da casa mia. C’è una poesia inVa tutto beneche secondo me spiega tutto meglio di mille parole. La poesia è questa:

Io l’ho presa

la desolazione

tutta la desolazione che c’era

intorno alla casa dove sono nato

tutta quella che si vedeva

dalla campagna di mio nonno

e l’ho trasformata in contenuto.

È diventata una biblioteca.

La scrittura per me è il modo di esprimermi nella serenità dei miei strumenti limitati, che pur cerco costantemente di ampliare, e di parlare di chi sono attraverso il posto dove sono, il Sud.

Quali sono i tuoi modelli letterari di riferimento?

Il mio primo modello letterario non è uno scrittore. È Fabrizio De André. Appartengo alla fiumana di gente che c’entra qualcosa con l’arte perché un giorno ha ascoltato una sua canzone. La mia è stata Carlo Martello di ritorno dalla battaglia di Poitiers. Da lì è iniziato tutto.

Ho letto poi i classici, per la poesia soprattutto Petrarca e per la narrativa Alexandre Dumas padre.

Verso i vent’anni ho scoperto Andrea Pinketts di cui ho letto tutto, in particolar modo i primissimi lavori. Poi Leonardo Sciascia, una folgorazione così come Franco Arminio.

Per anni ho avuto il problema che in me stessero convivendo anime opposte, da un lato Pinketts e la sua ironia comica, dall’altro Sciascia con la precisione e l’essenzialità della parola, la denuncia sociale un attimo prima di rassegnarsi; poi Arminio e l’amore per la terra, Bukowski e l’erotismo. Mi sentivo privo di un’identità precisa. Poi, come qualche volta accade, una lettura mi ha risolto ogni cosa.

È successo con un poeta di Potenza, Leonardo D’Auria, sconosciuto ai più, che ha fatto poche pubblicazioni e tutte con editori locali. Insomma, a conti fatti uno dei tantissimi del mare magnumeditoriale nostrano. Grazie ai suoi versi, che lui definisce “beat”, ho capito che le mie varie anime si potevano unire. Ho capito che si poteva fare denuncia sociale ed essere contemporaneamente ironici, si poteva far poesia e, allo stesso tempo, far sorridere.

In quel momento, come si dice, mi sono sbloccato.

Vorrei poi dire che io non sono uno scrittore a tempo pieno ma bensì un lettore. Quindi la lista dei miei riferimenti letterari continuerebbe oltre il consentito da quest’intervista. Mi piace pensare però che dalle mie opere traspaia tutto. Ogni tanto succede, alle presentazioni o sui social, che qualcuno mi chieda se quel verso, quel capitolo, è ispirato allo scrittore Tizio o Caio. Ecco, sono uno di quelli che, quando scrive, è contento se un po’ si intravede anche la penna di un altro; magari uno dei grandi.

Quali sono i tuoi cinque libri preferiti?

Il contesto, di Leonardo Sciascia.

Perché mi ha insegnato a essere chirurgico nel messaggio e nel linguaggio.

La quinta stagione, di Fulvio Tomizza.

Perché, come lui, cerco costantemente di raccontare l’irraccontabile posto da dove vengo.

Parenti lontani, di Gaetano Cappelli.

Perché è parte della mia storia, quella collettiva dei lucani che è un po’ reale, un po’ immaginata e un po’ sperata.

Cedi la strada agli alberi, di Franco Arminio.

La sua è l’arte in cui trovo più spesso me stesso.

Nero di Puglia, di Antonio Campobasso.

Per la rabbia che mi ha aiutato ad inserire nelle cose che scrivo.

Tutti italiani, cavolo! Si può inserire extra lista L’imperatore di Portugalliadi Selma Lagerlof, L’amore ai tempi del coleradi Marquez, La regina di Sabadi Knut Hamsun e… ah, non si può. Va bene mi fermo qui.

Chi è Raffaele Montesano?

Una mia poesia recita:

Il nome che porto

è sul monumento ai caduti

nella piazza del mio paese,

su una lapide al cimitero

su una vecchia bolletta della SIP

in un quaderno di terza elementare

sulla copertina di qualche libro.

Sono sempre io, sempre il mio nome.

È da un paio di secoli

che mi scordo di morire.

Ecco, questo sono io. Io mi sento la continuazione di qualcosa che è iniziata secoli fa. In me ci sono  i morti, tutti, e contemporaneamente il seme di chi verrà, non necessariamente i miei figli. Sono convinto che la personalità, o parte di essa, non si trasmetta solo per via sanguigna, ma per contatto, qualsiasi forma di contatto. Da questo punto di vista io ho preso sia da mio nonno che da Dostoevskij. Io sono in qualche modo imparentato con tutto il mondo.

Quali sono i tuoi prossimi progetti letterari?

Ho in testa romanzi per almeno dieci anni. Non so però quale verrà per primo alla luce. La mia è una scrittura parallela, su più fronti. È anche una questione di stati d’animo: un giorno sono più propenso a scrivere qualcosa, altri giorni altro. Sul desktop del mio pc e sulla mia moleskine c’è materiale per almeno sette o otto libri.

La poesia è invece un’attività costante. Scrivo versi quasi tutti i giorni. Sta prendendo forma un secondo libro che, in qualche modo, sarà la continuazione diVa tutto bene.

Da qualche anno sto poi pensando ad un libro sulla lettura, anzi meglio, sull’amore per la lettura. Una cosa a metà tra Calvino e Pennac. Me lo immagino come una sorta di diario di viaggio dove al posto dei luoghi ci sono i libri che ho letto da quando ero bambino ad oggi.

Poi magari tra poco annuncio l’uscita di un libro che non c’entra niente con quanto detto fino ora. Chi lo sa. Sono un animale strano.

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